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Marco Fortis: "Non è vero che l'Italia sta peggio di altri"

L'intervista al vicepresidente della Fondazione Edision: "I giovani del Belpaese non pagano la crisi più di altri"

Andrea Tempestini
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I giovani italiani stanno pagando la crisi economica più dei loro coetanei europei e americani? Falso. Nel Nord Italia, i tassi di disoccupazione giovanile, finora bassi, sono sì aumentati, ma mantenendosi su valori inferiori a quelli di altre economie avanzate. Al Sud, invece, i tassi sono più elevati, ma in un decennio (dal 1999 ad oggi) si sono abbassati di circa dieci punti percentuali. Al professor Marco Fortis, economista, vicepresidente della Fondazione Edison, piace smontare pregiudizi e luoghi comuni. Non solo per dare dell'Italia un'immagine migliore di quella, falsa, che va per la maggiore. Ma anche perché solo una diagnosi corretta può garantire una cura adeguata per i nostri mali, che pure non mancano. Professore, la disoccupazione giovanile in Italia ha toccato il 29%. Un triste primato, ci viene detto… «Non è così. La piaga della disoccupazione giovanile ci accomuna all'intero mondo avanzato. Con una differenza, semmai. La crisi di questi ultimi anni ha risospinto noi alle cifre, già molto alte, toccate alla fine degli anni '90. Mentre per molte altre economie avanzate, picchi di disoccupazione così elevati sono una novità». Si spieghi meglio. «Se verrà confermato il dato di dicembre (disoccupazione al 29%), vorrà dire che siamo tornati al 1999, quando eravamo appunto a quei livelli: 28,7%. Per altri Paesi, invece, i tassi attuali sono una novità. La Spagna nel 2010 ha superato il tasso del 40%, ma nel '99 era al 27%: un balzo di 13 punti. In questo stesso torno di tempo l'Irlanda passa dall'8,5% al 27%, il Portogallo dal 9 al 22%. La Svezia è al 25%, ma partiva dal 12% del 1999. Anche l'Inghilterra partiva dal 12%, e ora è al 20%, con punte del 25% nella inner London, l'area economicamente più avanzata del Paese». Rimane il fatto che i tassi italiani sono fra i più alti… «Il vero problema dei dati italiani, quello che provoca letture superficiali e grossolane, è che sono la media del giorno e della notte, cioè di un Nord Italia che ha sofferto la recessione ma continua a tenere il passo delle migliori economie, e di un  Sud che è un buco nero, una vera piaga mai affrontata, anche se paradossalmente è stato meno colpito dalla crisi». In che senso? «Partiamo dal Nord. La recessione ha colpito duro. La disoccupazione giovanile al Nord Ovest è al 20,1%, al Nord Est è al 15,7. I dati segnalano un peggioramento (nel 2004 si era al 14,1 e al 10,6, ndr), ma rimangono in assoluto tra i migliori a livello europeo. La inner London, ricordiamolo, ha una disoccupazione giovanile al 25%, l'Ile de France al 19,5, l'area di Bruxelles al 32». Il Sud, invece? «Paradossalmente, non è peggiorato. Il 36%  del 2009 è una cifra altissima, ma che si confronta col 34% del 2004. E con il 46,1% del 1999. Tra 2004 e 2009, con la recessione in mezzo, la Sicilia è passata dal 43% al 38%, la Calabria dal 40 al 32%. Intendiamoci, i numeri  sono sfalsati dal presumibile aumento degli “scoraggiati”, quelli che il lavoro nemmeno lo cercano più e quindi scompaiono dalle statistiche ufficiali. Ma il dato di fondo resta». Ma le cause profonde della disoccupazione giovanile  seguono o precedono il crac del 2008? «Ci sono certo gli effetti della crisi del 2008, i cui primi segnali peraltro risalgono all'anno prima. Ma  poi c'è anche   la forte concorrenza dei Paesi emergenti,  che mette in crisi il  manifatturiero; che è lo sbocco tipico di chi non vuole continuare gli studi e trovare subito un lavoro. Fortunatamente, in Italia non abbiamo smantellato l'industria. Anche perché i nostri imprenditori non possono scappare: una piccola azienda non può comportarsi come una  multinazionale. Volente o nolente, rimane attaccata al territorio». Come si affronta questo problema? «Nessuno ha bacchette magiche o ricette preconfezionate. Nemmeno negli  Usa  la ripresa  si vede ancora: il tasso di disoccupazione giovanile è schizzato dal 10% circa del 1999 al 18-19%. E anche lì c'è un “Mezzogiorno”, non geografico ma etnico: gli afroamericani e i latinos. Ora, Obama dispone di strumenti finanziari enormi per stimolare l'economia, eppure finora ha potuto fare ben poco. Figuriamoci che cosa può fare l'Italia…» Alcuni suggeriscono una via poco costosa: le liberalizzazioni. «Aprire il mercato del lavoro e liberalizzare servizi pubblici e professioni va benissimo. Non aspettiamoci però che sia la panacea di tutti i mali. Non è liberalizzando i taxi e le tariffe degli avvocati che prenderemo a crescere del 4%». Qual è dunque la ricetta migliore? «Il rilancio degli investimenti in infrastrutture.  È la migliore risposta all'arretratezza del nostro Sud. Ma qui i singoli Paesi possono ben poco, è l'Europa che deve agire. Va benissimo il maggior coordinamento sui conti pubblici o sulle politiche fiscali, ma c'è anche un'altra carta da giocare, per favorire la crescita». Gli eurobond? «Sì. Però dovrebbero servire non solo a salvare gli Stati indisciplinati, ma anche a finanziare progetti sulle vie di comunicazione, l'energia, la formazione, la scuola. Bisognerebbe rileggersi Jacques Delors». La Germania sarà d'accordo? «Penso che si convincerà che la via europea conviene anche a lei. La Germania ora entusiasma tutti, ma   da sola può  fare miracoli. Non credo che il solo export basti a crescere ai livelli previsti e, quanto agli investimenti interni, anche i tedeschi devono ormai fare i conti con un debito pubblico a livelli italiani». di Alessandro Giorgiutti

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