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Bertagna: "Bisogna saper lavorare con le mani"

Per il professore "gli studenti devono imparare un mestiere entro i 18 anni, durante la scuola"

domenico d'alessandro
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Leggendo l'ultimo libro di Giuseppe Bertagna (Lavoro e formazione dei giovani, Editrice La Scuola) viene un sospetto. Le cause profonde della disoccupazione giovanile, sulla quale si rompono il capo gli economisti, non saranno culturali? Per esempio, non è paradossale che in alcuni settori (l'artigianato, per esempio) l'offerta di posti di lavoro sia sempre superiore alla domanda? E non  c'è qualcosa di sbagliato   nel fatto che «gli stage degli studenti secondari e universitari si fanno prevalentemente nelle relazioni esterne, uffici stampa, marketing e pubblicità, risorse umane, ricerca e sviluppo: pochissimi in produzione diretta»? «Io penso che alla base dei nostri problemi ci sia una storia, lunga cento anni, che ha liquidato il valore  culturale, relazionale e morale del lavoro. Di qualsiasi lavoro, quindi anche manuale», ci dice Bertagna, che coordina la Scuola Internazionale di Dottorato in “Formazione della persona e mercato del lavoro” all'Università di Bergamo:  «Oggi siamo tutti più o meno convinti che chi lavora lo fa perché non ha voluto o potuto studiare. Mentre chi studia lo fa per imparare a  far lavorare gli altri» Colpa della scuola? «Anche. Dalla riforma Gentile in poi, la scuola viene pensata come strumento per selezionare una classe dirigente. Una concezione elitaria che non regge più, anche solo per considerazioni  demografiche. Nel 1994 i giovani con meno di 20 anni erano 30 milioni, oggi sono meno della metà. Bisogna metterli tutti in grado di raggiungere l'eccellenza nel proprio ambito e trarre  il meglio dal loro  lavoro». Per giustificare il concetto di dignità del lavoro lei risale fino alla Genesi, dove si vede come il lavoro manuale non sia la conseguenza del peccato originale ma un compito originariamente proprio dell'uomo, immagine di Dio. Con questo "precedente" come si spiega il disprezzo nel quale è tenuto oggi il lavoro manuale? «Alla fine '800  si diffonde un'idea piramidale della società. Un   esempio è la catena di montaggio, che nasce dal presupposto che gli operai siano  incapaci di decidere come lavorare bene. La storia ha smentito la teoria. Gli operai governano la catena di montaggio: la accelerano per riposare, ne segnalano gli errori che penalizzano la produzione...  È  la dimostrazione che non si può creare un muro divisorio tra masse ed élites. Ciò è particolarmente evidente nelle piccole  imprese, dove le innovazioni sono incrementali: rispondono ad  esigenze concrete, che non si possono conoscere davvero se ci si rifiuta di “sporcarsi le mani”» Non trova che il  collegato lavoro,  che valorizza l'apprendistato, sia un passo avanti in questo senso? «Infatti c'è subito chi ha parlato di  sfruttamento del lavoro minorile!  Non capiscono che  l'apprendistato ha dato il via alle rivoluzioni culturali e scientifiche, pensi al Rinascimento italiano o alla rivoluzione industriale. L'apprendistato è il modo ideale  di apprendere, mentre oggi a scuola perfino l'educazione tecnica si studia sui libri...» Bisognerebbe iniziare a “sporcarsi le mani” fin dalla scuola? «Io renderei obbligatorio l'apprendimento di un mestiere, in orario extrascolastico, dai 6 ai 18 anni. Lo studente scelga il lavoro che vuole: sarto, parrucchiere, muratore... Poi magari farà l'intellettuale, ma almeno non sottovaluterà  il lavoro manuale. Ogni lavoro è un bacino ricchissimo di saperi» Un'obiezione: i giovani non cercano  i lavori manuali perché sono poco remunerativi. «Un laureato in ingegneria  guadagna   1.200 euro al  mese. Un idraulico o un muratore che sia capace di costruire un muro divisorio   veramente dritto prende molto di più. Non è una questione economica ma di  prestigio sociale. Secondo  un certo “neoclassismo etnico” (al quale si è  convertito anche qualche ex marxista) certi lavori, che pure richiedono grandi competenze  (muratore, badante, giardiniere) vanno lasciati agli stranieri.  Non solo è ingiusto,  è anche illusorio: nessuno ci garantisce che, di questo passo, noi manterremo la competenza per gestirlo, questo processo». di Alessandro Giorgiutti

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