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Norman Rockwell, il vero stratega del buonismo Usa al tempo della crisi

Giulio Bucchi
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Una mostra dedicata a Norman Rockwell - come quella della Fondazione Roma-Arte-Musei - è, oggi, il Prozac per una nazione sull'orlo di una crisi di nervi. Un'insufflata d'ottimismo che richiama Roosevelt, l'american Way of Life, i film in biancoenero di Frank Capra, come La vita è meravigliosa o Mr.Smith va a Washington zeppi di angeli che vogliono guadagnarsi le ali, di madri d'acciaio e di uomini di buona volontà. Non c'è uno stronzo che sia uno, nelle illustrazioni coloratissime di Rockwell. Ma per «il più grande illustratore americano del XX secolo» non rappresentare la cattiveria del mondo era scelta strategica. Rockwell aveva una tematica straordinariamente ripetitiva. Gli Stati Uniti rurali delle origini; Lincoln e Kennedy sempre sorridenti (sempre prima di essere ammazzati); l'eroismo, gli scout, l'impegno sociale, i diritti civili, le camicie a quadri; le colazioni a base di Kellogg's (di cui fu testimone); le orde di bambini e cani e poliziotti buoni e adolescenti inquieti ma mai ribelli. Rockwell è Mark Twain intossicato dai cartoon di Walt Disney e nutrito esclusivamente a torte di mele della sana provincia americana. Non per nulla l'illustratore lasciò New York per Arlington nel Vermont; per dopo, trasferirsi definitivamente a Stockbridge nel Massachusetts. Rockwell era sicuramente un buonista strategico, perché aveva la consapevolezza che i suoi disegni potevano dare una speranza all'America attraversata dalle guerre, dal proibizionismo e dalla caccia alle streghe. Ma l'uomo brillava anche di un'ironia cristallina. Il suo Triple Self-Portrait (1959), in cui Norman rappresenta se stesso nell'atto di dipingere il suo ritratto fece scuola. E le sue famiglie strapazzate dalla crisi ma sempre col sorriso, gli abiti stirati e la schiena dritta, in Italia e ai giorni nostri evocano un renzismo con più di 80 euro...  di Francesco Specchia

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