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Valeria Solesin, la persona dell'anno per i motivi sbagliati: la "generazione Bataclan" è il fallimento dell'Europa progressista

Andrea Tempestini
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Si rimane colpiti scorgendo in edicola il bel viso sorridente di Valeria Solesin che emerge dalla copertina dell'Espresso. Il settimanale ha indicato questa ragazza di 28 anni, l'unica italiana uccisa nella mattanza del Bataclan di Parigi il 13 novembre scorso, come la «persona dell'anno». È una scelta giusta: davvero l'immagine di Valeria rappresenta meglio di ogni altra l'Italia del 2015. Il fatto è che questa giovane donna, portata via da una morte atroce, è emblematica del nostro Paese per motivi molto diversi da quelli citati dall'Espresso. O, meglio, i motivi che la rendono così rappresentativa non sono fonte di gioia. Scrive il settimanale in copertina, proprio sotto il sorriso di Valeria: «La ragazza uccisa al Bataclan rappresenta il meglio di una generazione aperta, solidale, cosmopolita, diventata bersaglio dei fanatici jihadisti». ll riferimento è a quella che il quotidiano francese Libération ha ribattezzato «Generazione Bataclan», cioè quella a cui appartengono gli europei di circa trent'anni. Il fatto è che questa generazione, suo malgrado, rappresenta il fallimento dell'Europa, ne subisce il disastro. Proprio perché ha quelle caratteristiche che l'Espresso indica con tanto entusiasmo come punti d'onore. Infatti gli articoli ampi e suggestivi che il giornale dedica a Valeria e ai ragazzi come lei mostrano la tragedia europea con un nitore sconfortante. Sì, la «generazione Bataclan», chiamiamola così, è cosmopolita. Perché è stata cresciuta con il mito delle frontiere aperte, delle identità ibride. È stata modellata sull'esempio di una élite globale sradicata, per cui la migrazione, lo spostamento continuo, la cultura meticcia sono valori da imporre. Il problema è che questo modello funziona, appunto, solo per l'élite. Ma le frontiere di quest'élite, quelle sì, sono blindate, circondate da muri difficilmente sormontabili. In nome dei confini da abbattere e delle culture da mescolare, questa Europa ha insegnato ai propri figli che è meglio fare il cameriere a Londra o la cassiera a Parigi (come è toccato a Valeria, che pure vantava una collezione di titoli accademici da fare invidia) piuttosto che l'idraulico a Bergamo. Sommate a tutto ciò l'utopia assurda in base alla quale tutti, a qualunque costo, devono per forza possedere una laurea (perché il lavoro è svalutato in nome dello snobismo progressista) e otterrete migliaia di giovani dotati di pezzi di carta che non valgono nulla, costretti a saltabeccare da uno stage all'altro, sempre contando sulle finanze dei genitori. Oppure, come nel caso di Valeria, obbligati a svolgere lavori sottopagati in altri Paesi per campare. Sempre in nome del nomadismo obbligato della classe dirigente transnazionale e cosmopolita, vediamo una miriade di ragazzi prendere il volo ogni anno. Chi può, lascia l'Italia e se ne va all'estero. Rimane per lo più chi non ha le possibilità, anche economiche, per mollare tutto. I pochi eletti entrano a far parte della cerchia ristretta che parla solo l'inglese impersonale della finanza, che ha l'ufficio a New York, la famiglia a Vimercate e la domestica fillippina. Gli altri restano ai margini, con stipendi sempre più bassi e condizioni lavorative sempre più difficili. Con i loro coetanei d'élite hanno in comune solo l'inglese standardizzato, che svuota gli idiomi nazionali. Così i Paesi si dissanguano e sfioriscono, così i popoli si accasciano e tramontano. Le comunità si sciolgono nel pentolone multiculti, dove il più forte comanda e gli energumeni jihadisti proliferano. Ah, poi c'è la «solidarietà», legata a doppio filo al cosmopolitismo, lo strumento con cui l'élite liberal - in Italia storicamente cullata anche dall'Espresso - si lava la coscienza dopo aver fatto il gioco delle forme più spietate e deteriori di capitalismo. L'accoglienza degli stranieri è l'altra faccia dell'emigrazione forzata dei giovani europei. Quelli se ne vanno, in compenso arrivano nuovi potenziali lavoratori a basso costo. Solo che questi ultimi non si rassegnano a fare solo la bassa manovalanza. Si portano da casa la propria cultura, la propria religione, e spesso pure un risentimento accumulato da generazioni. E l'Europa delle identità flessibili non ha la forza di opporsi, figuriamoci la capacità di integrare. In alcuni casi, gli immigrati fanno figli che alla terza generazione si radicalizzato e diventano assassini in nome dell'islam. In altri casi, i macellai arrivano direttamente col barcone, come è accaduto con alcuni dei fanatici tagliagole che hanno aperto il fuoco al Bataclan. Quel locale parigino e la generazione di uomini e donne che hanno perso la vita al suo interno sono i prodotti dell'Europa friabile, molle e dissociata edificata dalle sinistre e da qualche sedicente destra, entrambe in combutta con l'affarismo senza limiti. I valori che l'Espresso attribuisce ai ragazzi come Valeria sono proprio quelli che non li hanno salvati, che hanno costruito per loro e i loro figli uno stato di incertezza permanente e di insicurezza. Alcuni sono morti lontano da casa, mentre ascoltavano un gruppo rock di cui forse nemmeno conoscevano le posizioni politiche (sul repubblicano Usa andante). Del resto, non conoscevano neppure il motivo per cui qualcuno - magari accolto con solidarietà cosmopolita - li stava massacrando. Nemmeno dopo la strage i nostri politici cosmopoliti e progressisti hanno avuto il coraggio di chiamare per nome gli assassini e di indicare la loro motivazione ideologica. Sì, la generazione Bataclan è perfetta per incarnare il presente, perché ne ha sperimentato il nulla. Valeria vivrà per sempre, dice giustamente l'Espresso, e lo farà nell'amore dei suoi cari dove è inciso il suo sorriso dolce. È la sua generazione, la nostra, a essere moribonda. di Francesco Borogonovo

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