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Quanti amici inquisiti per lo iellato Tonino

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di Filippo Facci

Eleonora Crisafulli
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Antonio Di Pietro non sapeva e non poteva sapere che il funzionario del Sisde Bruno Contrada sarebbe stato arrestato nove giorni dopo la famosa cena dei servizi segreti. Non sapeva che la Procura di Palermo - con cui lo stesso Tonino diceva di collaborare - diffidava di Contrada come pure ne diffidavano Falcone e Borsellino. Del resto non poteva certo sapere, Di Pietro, che il suo amico d'infanzia Pasqualino Cianci sarebbe stato condannato per omicidio pochi mesi fa: mica ha la palla di vetro. Così come non sapeva che il proprietario della Aster - azienda che Tonino sorvegliava quando era un giovane dipendente del ministero dell'Aeronautica - sarebbe stato condannato per associazione mafiosa a 3 anni e 6 mesi per lo scandalo della scalata del casinò di Sanremo. Non lo sapeva neanche nel 1992, quando i cronisti del Palazzaccio milanese assistettero a un commovente incontro tra Michele Merlo e Di Pietro: «Il mio maestro...» disse Tonino appropinquandosi a lui. Ma non sapeva, poveretto. Di Pietro non sapeva neppure che l'appuntato Roberto Stornelli, quando Tonino era vicecommissario in via Poma, a Milano, sarebbe stato inquisito per corruzione e mafia e condannato nel 1996 a tre anni di carcere. Ai tempi non poteva saperlo, né immaginava: e infatti cooptò l'amico Stornelli e ne fece uno dei suoi principali collaboratori durante l'inchiesta Mani pulite.  Stornelli peraltro racconterà di un sedicente «metodo Di Pietro» così riassumibile: sfondare la porta e sorprendere i ricercati mentre erano a letto con le loro donne. Due biografie descrivono l'episodio di una poveretta che cerca di sedurre Di Pietro perché non arresti il suo uomo, e Tonino a fare battutine assieme all'amico appuntato. Colpisce che Stornelli e i biografi narrino l'episodio con fierezza. Così pure si racconta dei fine settimana che i due passavano nei boschi, a castagne, prendendole a revolverate: Tonino con la P38, Roberto con la Beretta 91. Ma che ne sapeva, Di Pietro. Il quale, poi, divenne segretario a Bergamo. Ma non poteva sapere che il suo segretario personale, il maresciallo Giuseppe Di Rosa, era un concussore: ecco perché attese sino al 23 giugno 1985 - giorno del suo trasferimento a Milano - per arrestarlo mentre incassava una mazzetta da dieci milioni. Perché non sapeva. Si fece svendere una Mercedes d'occasione dall'imprenditore Giancarlo Gorrini e accettò anche un altro paio di piaceri: tipo cento milioni senza interessi, decine o centinaia di milioni - cifra imprecisata - per ripianare i debiti di gioco dell'amico Eleuterio Rea, pacchetti di pratiche legali per la moglie Susanna, impiego del figlio - due volte - alla Maa assicurazioni, omaggi vari tra i quali ombrelli, agende, penne e cartolame vario, uno stock di calzettoni al ginocchio, alcuni viaggi in jet privato per delle partite di caccia in Spagna e in Polonia; accettò tutto questo, ma non sapeva che Giancarlo Gorrini fosse inquisito per bancarotta fraudolenta e risultasse già condannato per appropriazione indebita. Di Pietro accettò dal costruttore Antonio D'Adamo altri cento milioni senza interessi, altre decine o centinaia di milioni - cifra imprecisata - per ripianare il debito dell'amico Rea, una Lancia Dedra per sé e la moglie, l'utilizzo stabile di una garçonnière dietro piazza Duomo, l'utilizzo saltuario di una suite da 5-6 milioni al mese al Residence Mayfair di Roma, consulenze legali per la moglie Susanna, consulenze legali per l'amico Giuseppe Lucibello; accettò anche questo, ma non sapeva che sulle società di D'Adamo fosse stata aperta un'inchiesta (chiusa nel '91, riaperta nel '92) e non lo seppe neppure dalla moglie Susanna, che pure da D'Adamo ci lavorava, e del resto, forse, Di Pietro non poteva neppure sapere che D'Adamo sarebbe finito a processo per turbativa d'asta e corruzione. Tantomeno poteva immaginare che a far bisboccia con lui, la sera, ci fosse un manipolo di futuri inquisiti: peraltro da lui. Non lo sapeva a proposito del sindaco Paolo Pillitteri e del cassiere socialista Sergio Radaelli, che tanto si dannarono per procurargli un bilocale in equo canone dietro Piazza della Scala; non sapeva né immaginava nulla del cassiere democristiano Maurizio Prada, dell'architetto socialista Claudio Dini, dell'imprenditore Valerio Bitetto. Le prime biografie su di lui non a caso tendono a raccontare un Di Pietro che già in quel periodo indagasse per Mani pulite, anzi, indagava praticamente da sempre, era una sorta d'infiltrato che anziché vivere conduceva indagini preliminari da circa quarantadue anni. A cena da D'Adamo, non cenava: raccoglieva materiale probatorio. Con Radaelli, fingeva amicizia: difatti sbirciò nel suo portafoglio – questo scrivono ancora le biografie – e annotò il nome delle banche in cui aveva i conti. Se Di Pietro era un infiltrato, si era infiltrato benissimo. Ecco perché non sapeva che il suo commercialista, l'uomo che redigeva il suo 740, il primo febbraio 1996 sarebbe stato arrestato per un giro di squillo d'alto bordo. Ecco perché non poteva sapere che un poliziotto della sua scorta personale, nell'autunno dello stesso anno, sarebbe stato arrestato a sua volta per un giro di prostitute di bordo decisamente meno alto. Ecco perché l'elenco degli indagati e dei condannati che sono stati regolarmente candidati nell'Italia dei Valori, a livello locale o nazionale, in questa pagina non ci starebbe. Non sapeva che quella volta ad Amantea, in Calabria, fece due comizi con un personaggio già allora indagato per brogli elettorali e condannato per abuso, poi riarrestato con l'accusa di aver ricevuto aiuti elettorali dalla ‘ndrangheta, dunque in attesa di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Di Pietro non era informato. Non sapeva. Non poteva sapere. Non poteva immaginare. Forse è stupido.

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