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"C'è bisogno di una nuova giustizia"

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In via Padova c'è chi insegna che si può ricostruire. Fiaccolata dei cittadini per chiedere più sicurezza

Maria Acqua Simi
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La prima cosa che vedi sono vetri di bottiglia rotti, a decine. Dal marciapiede colano rivoli di birra e piscio, che arrivano fino all'asfalto. Avremo percorso si e no cento metri, da quando abbiamo abbandonato piazzale Loreto per inoltrarci in via Padova. La sfilza di negozi che si incontrano lungo la strada - abbiamo deciso di camminare a piedi - rivelano tutto. C'è "Anna la parrucchiera", che aldilà dell'insegna rassicurante rivela solo cinesi al suo interno. E poi i kebhab, i caffé gestiti dai sudamericani e le macellerie islamiche. I Japan Food e Money Transfer. Pochi i negozi italiani. Per strada, la gente che s'incontra conferma quanto le insegne rivelano. E cioè un'altissima percentuale di stranieri che vive, concentrata, in poco più di tre chilometri. L'altro giorno da queste parti hanno ucciso un ragazzo egiziano, ma a far girare i coltelli sarebbero stati dei sudamericani. La polizia, i carabinieri e i militari pattugliano la zona metro a metro. Perfino i controllori dell'Atm sono fermi praticamente ad ogni fermata. La gente che cammina neanche ci fa caso, sembra abituata. Del resto qui le risse sono all'ordine del giorno, raccontano due tizi seduti al bar. Ma di quello che è successo sabato notte, nessuno parla. Nessuno qui sa niente. Mohamad, che incontriamo poco prima di via Arqua, racconta che un suo amico era là, al momento della rissa. Dice che l'ambulanza è arrivata tardi, che quelli erano già scappati. E se poco prima aveva accettato di raccontarci della sua vita (lavora al mercato, banco della frutta, e vive in un appartamento con altri sei compagni sempre dall'Egitto) adesso si fa ritroso. "Non so niente, niente", mi ripete ossessivamente. Però insisto: "Ma come? Il tuo amico era là, conosceva il ragazzo ucciso...saprà chi è stato...". Allora Mohamad, quasi sottovoce, biascica due o tre parole: "Forse, sì. Ma non parlano perché...non so, per paura. Paura di cose brutte". Ed è la paura quel che ricorre nelle parole della gente che vive da queste parti. Maria, la portinaia, ha voglia di parlare. Di giornalisti ne sono passati tanti, racconta, ma siccome non ho una telecamera dice che c'è più gusto a parlare con me. "Sa, qui tutti hanno paura, nessuno esce dopo le sei, sei e mezza di sera. Io stessa la mattina, per paura di imbattermi in gente ubriaca, anche se devo fare solo cinque minuti a piedi prendo l'autobus". Non si fida, Maria. E neanche la signora bionda che abita nel condominio dove Maria lavora. Che uscendo si ferma e sussurra: "Io non vivo più, sa? Qua è come il carcere a vita". Perché gli orari li detta la paura. Li dettano i sudamericani ubriachi di birra o gli egiziani rissosi. "Mi creda se le dico che via dei Transiti la mattina è una cosa vergognosa". Questa sera alle 18 ci sarà una fiaccolata, ci tengono a far sapere i cittadini, per chiedere che venga garantita più sicurezza. Piazzale Loreto è già pieno di poliziotti in tenuta antisommossa, con le camionette blindate. Ma questo noi lo vedremo solo al nostro ritorno. Prima decidiamo di percorrere tutta via Padova. Camminando incontriamo la macelleria "Awlad". Chi lavora lì è disponibile a farsi fare qualche domanda. E racconta che il ragazzo ucciso era "Uno bravo, ogni tanto veniva qui a comprare la carne". Poco più avanti, una signora dai capelli rossi esce dalla parrocchia San Giovanni Crisostomo, l'unica ad essere al centro di viale Padova. Ha appena finito di recitare il rosario, deve correre a fare la spesa, ma due battute su "quell'ex albergaccio, laggiù in fondo, dove spacciano droga". le rilascia senza problemi. Lo sguardo che cambia- Una sbirciatina in chiesa e cerchiamo i sacerdoti. Ed è così che ci imbattiamo in don Paolo e don Nicola. Che di via Padova hanno una visione completa, ma assai diversa da quella che vogliono dipingere certi giornali. "Non è l'inferno, non ci sono guerre tra etnie", spiega don Paolo Cecchi, che della chiesa di San Giovanni Crisostomo è parroco.  Poche parole, ma si capisce subito che  non vuole negare le difficoltà, s'intenda, ma di quel che c'è da fare ha una visione ben precisa. "Quello che emerge dai fatti di questi giorni", spiega, "è un grande bisogno di giustizia, che va ascoltato ed interpretato. E per fare questo la legalità è necessaria. Una convivenza è possibile se ci sono delle norme e dei patti che permettono alle persone che hanno storie diverse e culture differenti di riconoscersi e di rispettarsi". E le istituzioni pubbliche? "Devono fare la loro parte trovando le leggi giuste, ma anche i cittadini devono fare la loro parte rispettando la legge e favorendo cammini di legalità nelle scuole, negli oratori". Poi racconta del ruolo della preghiera, così importante "per affrontare la sproporzione che sentiamo di fronte a problemi più grandi di noi. Ma non possiamo dimenticarci di quel Dio che si è compromesso con la nostra storia fino a dare la sua vita". Don Paolo è di fretta, è tutto il giorno che lo cercano e adesso è l'ora del catechismo. Me la butta lì. "Scambi due parole con don Nicola, che si occupa dei ragazzi dell'oratorio". Lo faccio. Ed è una fortuna. Perché don NicolaPorcellini, vicario parrocchiale,  non spreca tanto fiato. Va dritto al sodo. Dice che i problemi più grandi sono la paura e la rabbia, i due strumenti che il male usa per dividere e far vacillare l'uomo. E nel dirmi queste cose mi racconta di Ahmad, un bambino egiziano di dodici anni che va al doposcuola. "Oggi stavamo finendo i compiti, e AHmad mi ha guardato. "Ho paura", mi ha detto, "che la polizia mi venga a prendere". E di fronte a quel bambino io mi sono reso conto che non dovevo far finta di niente, cancellare con una pacca sulla spalla la sua paura. Ma fargli compagnia. Così l'ho rassicurato, e poi abbiamo finito i compiti". Don Nicola con quegli occhi azzurri ti trafigge. Ed è con la stessa limpidezza che racconta che, sempre oggi, alcuni dei ragazzi che lo aiutano al doposcuola erano incerti se venire a dargli una mano coi bambini, per via del casino di questi giorni. Lui non ha fatto gran discorsi, ha solo chiesto: "Ma ci lasciate qui da soli?". Due ore dopo erano lì tutti. "La questione è esserci. Poi ovvio, non risolvo io i loro problemi. Però mi carico anche delle loro paure certo di quella Presenza, Gesù, che è l'unica che può consolare". Si capisce che non sono chiacchiere ad uso e consumo di noi giornalisti. E per conferma, don Nicola racconta di un torneo di calcetto fatto a primavera tra egiziani e sudamericani. "Non mi chieda chi ha vinto, non lo so. Ma è stato un bellissimo momento di amicizia". Perché all'oratorio di San Giovanni Crisostomo, lo sport è una disciplina che non serve solo a sgranchirsi le gambe. "Attraverso il calcio i ragazzi qui imparano l'ordine, le regole, il gioco di squadra". Imparano a stare insieme. Tutti: Maicol l'italiano, Mohamad e pure quelli "del gruppo della strada", sedicenni sudafricani che la sfida di don Nivola ancora non l'hanno raccolta. "Però c'è stima, e da quella si può partire". Per ricostruire, chiediamo noi? "Non ci siamo mai fermati", sorride don Nicola. E mentre usciamo, ci sembra che via Padova sia un po' meno sporca e straniera. Perfino quei vetri rotti, all'angolo, che l'Amsa sta portando via, dicono che tutto - con pazienza - si aggiusta. Maria Acqua Simi

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