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Gianfranco Sbrocca

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Fini litiga con Bondi, punta il dito sulla Lega e si lamenta per le intercettazioni. Non resta che capire chi lo dovrà licenziare

Fabio Corti
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Il PdL non c'è più, stavolta pare vero. Silvio Berlusconi non voleva neanche smentire la notizia del festino con le brasiliane, tanto avrebbe preferito sovrapporre quei fatti inventati da un giornale carioca alla grigia realtà italiana. La giornata del rientro  in patria dopo la lunga parentesi di viaggi istituzionali all'estero ha restituito un Cavaliere al minimo assoluto dell'umore. Anche perché le ultime 24 ore sono state una sintesi di tutte le rogne che l'anomalia politica di Arcore si trova davanti. Una settimana fuori e succede di tutto. Una nomina a ministro diventa il caso politico dell'estate, il Colle prende a sberle la maggioranza dopo un periodo di tregua, il PdL in preda a pulsioni centrifughe tipo lavatrice. Una diffusione di notizie circa l'allargamento del Lodo Alfano, troppo improvvida perfino per il partito confuso visto ultimamente. Il mondo dell'informazione in rivolta. E, ciliegina, nelle ore esatte del rientro, il coordinatore nazionale del partito e il cofondatore (Bondi e Fini) tignavano l'un con l'altro come al Processo, a fianco di uno sbigottito Pierluigi Battista che non poteva mettersi a fare il Biscardi della situazione. Ma la replica della scenata clamorosa («Sennò che fai, mi cacci?») tra il presidente della Camera  e Berlusconi in diretta tv ha segnato un passo avanti nella resa dei conti che tutti, a questo punto, si augurano prima ancora che aspettarsela. Manco il tempo di far atterrare l'aereo e Berlusconi era a Palazzo Grazioli, blindato con Alfano, Letta e Ghedini: c'erano da smaltire un bel po' di arretrati. La rissa tra Bondi e Fini non ha fatto che coronare la tensione di settimane, che sempre ieri ha avuto un nuovo punto critico nell'incontro tra i coordinatori e gli ambasciatori di Gianfranco sulle intercettazioni. In sostanza, un ennesimo rimpallo su un testo di legge massacrato di emendamenti, strappi, promesse di modifiche che neanche il più instancabile degli esperti d'Aula può davvero aver seguito. Più dei tecnicismi in Parlamento, però, sono le facce e i gesti a parlare. Fini e Bondi regalano uno spettacolo anche efficace: sembrano Ghedini e Travaglio ad Annozero. Bisticciano, si guardano storto. L'ex leader di An fa gesti con le mani come dire: “Ma va'”, l'altro gli ghigna in faccia. Gli argomenti del presidente della Camera sono in piena coerenza con la linea maturata negli ultimi mesi. Usa argomentazioni che nel resto del partito non si fatica a definire “di sinistra”: il sospetto della furbata anti-processi su Brancher, l'allarme sulla legalità nel partito, il nodo della Lega anti-unitaria. A un certo punto, quando parla di valori non negoziabili sui quali non rinuncia a fare «il controcanto», a qualcuno pare di sentire perfino echi ratzingeriani. Ad altri pare non valga la pena. Ma l'esaltazione della Prima repubblica è una pugnalata. Il Berlusconi che si precipita a Palazzo Grazioli, che annulla conferenze stampa, che da settimane non parla più coi giornalisti, è un Berlusconi che conta i passi prima di sparare, teso in un duello stile Far West che non sembra offrire soluzioni diverse dagli spari. Dall'altra parte c'è un Fini incazzosamente glaciale nella strategia di logoramento ogni giorno un po' più esplicita, fino alla scazzottata con Bondi di ieri. Tutto è pretesto per questo: intercettazioni, Lega, Quirinale, Brancher, la nazionale, l'inno, er Monnezza, Mangano, i rifiuti di Palermo. L'assenza temporanea di Berlusconi ha paradossalmente acuito i termini dello scontro, esasperando ancor di più le beghe senza il perno che le determina e le condiziona. Per questo da ieri tornare indietro non pare più possibile a nessuno. Lo scioglimento delle Camera è un'ipotesi che circola senza grandi giri di parole. L'insofferenza per il ruolo ritagliatosi dal presidente della Camera («incompatibile») ha portato Berlusconi a una soglia di (in)sopportazione acuita proprio dal non avere soluzioni rapide a portata di mano. Il refrain negli ambienti della maggioranza è sempre quello: «Se ne vada, così non si può». L'altro, Gianfranco, trae forza proprio dalle stesse parole dette in faccia a Berlusconi, col ditino alzato, di sotto al palco dell'Auditorium di Roma: «Sennò che fai, mi cacci?». Stavolta forse ci siamo, costasse la “cacciata” di tutto il Parlamento. Costasse la chiusura del partito, modello Pomigliano: si riparte solo con chi ci sta. di Martino Cervo

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