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Il serial killer Stevanin si fa frate

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La conversione dopo sei donne fatte a pezzi

Tatiana Necchi
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di Cristiana Lodi - Il mostro e il santo. Il pluriassassino e l'uomo di fede. Il carcere a vita e la vita in convento. Con il Tau e lo scapolare appesi al collo. «È come se lo Spirito Santo mi avesse rivoltato al suo interno a modo di un guanto», dice lui al ministro di culto che da cinque anni gli fa visita in cella. Su per giù come scrisse Manzoni raccontando Fra' Cristoforo. Lui però non è il personaggio di un romanzo, ma Gianfranco Stevanin: il serial killer più pericoloso che abbia agito in Italia fra il 1989 e il 16 novembre 1994, quando viene arrestato al casello autostradale di Vicenza Ovest, per lo stupro di una giovane prostituta austriaca. Era l'apice di una escalation criminale cominciata molto tempo prima, quando Stevanin aveva 18 anni. Alla fine andrà all'ergastolo per l'omicidio di sei donne. La sua sembrerebbe una storia inventata, invece è una storia accaduta dietro casa: a Terrazzo, paesino del Basso Veneto opulento. Fra i campi di soia e i filari di meli, sotto l'argine sinistro dell'Adige e il silenzio della gente. Gente che adesso farà sentire la propria voce, eccome se parlerà: perché quest'uomo a lungo disprezzato per le sue imprese mortifere a sfondo sessuale, per molto tempo deriso, temuto, talvolta  ammirato e studiato, oggi vorrebbe vestire l'abito francescano. Desidera diventare frate, il serial killer di Terrazzo: vorrebbe entrare in convento come francescano laico. «Sento il bisogno di seguire una strada nuova», dice. E il percorso sarebbe quello della vita consacrata nella Chiesa Cattolica: il Terzo Ordine Regolare di San Francesco, derivante dal movimento penitenziale. Un ordine mendicante, canonicamente autonomo all'interno della famiglia francescana. Se abbiamo ben capito, in pratica, il frate laico può portare avanti lo stile di vita comunitario e la vita pastorale pur senza rinunciare alla famiglia, ai figli, al lavoro e alla normale vita quotidiana. I francescani del Terzo Ordine sono presenti in Italia, Croazia, Spagna, Francia, Germania, Stati Uniti d'America, India, Sudafrica, Sri Lanka, Brasile, Paraguay, Messico, Perù, Svezia, Bangladesh e Filippine: sono laici che si dedicano alla vita pastorale nelle parrocchie, alle opere di misericordia per i bisognosi, all'educazione della gioventù, alla catechesi, alla predicazione, all'attività missionaria e all'apostolato. Cosa c'entra Gianfranco Stevanin con tutto questo? Quest'uomo, a lungo chiamato mostro dai giornali e dalle televisioni, si è macchiato di crimini orrendi. La sua sembrerebbe una vicenda incredibile, se non ci fosse l'orrore dei cadaveri: donne violentate, tagliate a pezzi, dilaniate, sepolte nei campi e collezionate maniacalmente nelle loro parti meno distruttibili: scalpi, peli pubici diventati cuscini. «L'errore più grande sarebbe negare l'efferatezza dei crimini commessi. Il passato non si cancella. San Francesco non lo ammetterebbe», spiega il ministro di culto, «noi sappiamo che Cristo può cambiare e tramutare la personalità di un uomo, però dobbiamo restare guardinghi e capire se questo avviene in modo sincero. E non per una questione di opportunità». Gianfranco Stevanin ha intrapreso il cammino vocazionale. Anche se siamo solo agli inizi. L'argomento è complesso, delicato e si presta a essere strumentalizzato. È evidente. Ma c'è chi cammina con i piedi di piombo: stiamo parlando di un maniaco, sadico, assassino seriale, considerato socialmente pericoloso. Perfino gli psichiatri, che all'epoca dei processi lo periziarono, alla fine di tutto non riuscirono a far quadrare i suoi oblii incerti e tantomeno a distinguere il confine esatto tra follia e normalità. Gianfranco Stevanin pazzo criminale? O solo colpevole di esserlo? Alla fine i giudici supremi sentenziano in via definitiva e pronunciano il verdetto tombale che lo inchioda al fine pena mai: «Ha commesso omicidi volontari, premeditati, crudeli, agghiaccianti, tutti ugualmente gravi: frutto di una mente lucida, capace di distinguere il bene dal male e quindi di scegliere se lasciare vivere o fare morire le sue prede». Dunque sano di mente, secondo la legge.  «Il convento è una istituzione non organizzata per i ricevere i folli. E la Cassazione ha stabilito che questo pluriomicida non lo è», ci spiega il suo padre spirituale, «il diritto canonico non preclude nessuna possibilità. Neanche a chi ha rubato o, ancor peggio, ucciso. Ci sono i precedenti: nel 1929, dopo 27 anni di reclusione, Alessandro Serenelli (assassino di Maria Goretti diventata Santa) fu scarcerato. Domandò perdono ai genitori della bambina ammazzata. La madre glielo accordò. E Serenelli trascorse il resto della sua vita come lavorante laico in un convento di cappuccini ad Ascoli Piceno. Morì il 6 maggio 1970, a 88 anni, in un convento di Macerata».    La questione, per Stevanin, semmai oggi è un'altra. Si tratta di capire se la sua avocazione è autentica. Per questo un frate vocazionalista, mandato dai francescani, lo seguirà per un anno e anche di più, se servirà. Il cammino è difficile. Anche perché parliamo di un ergastolano condannato a vita. Ma anche lui avrà diritto a godere di permessi di libera uscita, prima o poi gli saranno concessi: sicuramente per la buona condotta sempre dimostrata. E allora il convento potrebbe diventare la sua casa, almeno in quei momenti. «È proprio questo il punto. Non dobbiamo confondere la fede con l'opportunismo, ovvero con l'esigenza di sistemare la sua posizione chiudendolo in un convento, anche solo a intermittenza», ci spiega il frate. Ma cosa dice lui di tutto questo? Risposta: «La notizia più bella che ho ricevuto in questi sedici anni è sapere che la Chiesa non mi chiude la sua porta. Sento il bisogno di dare una direzione alla mia vita disordinata. Anche San Francesco ha cambiato la sua, dopo l'incontro con il lebbroso. Io vorrei seguire il suo esempio, cioè rispondere al comando di Gesù:  “Vai e ripara la mia Chiesa che cade in rovina”. Vorrei poter prendere malta e sassi per compiere questa missione». Queste sono le parole di un uomo che la stampa aveva battezzato “Il mostro di Terrazzo”. Com'è lui oggi, a cinquant'anni da compiere il due ottobre? È un uomo gigante, molto corpulento, i capelli lunghi, la calma e l'imperturbabilità di sempre: parli del suo passato e per lui è come stare a guardare un film che non gli appartiene. Il pentimento per il tanto male arrecato? «Io sto pagando la giustizia degli uomini. Mi dicono che quella di Dio dovrò pagarla quando sentirò il bisogno di chiedere perdono alle mie vittime e ai loro parenti. Ma devo essere onesto, lo sono sempre stato: io mi sento a posto con me stesso. Posso dire che è vero quel che i giudici sostengono abbia commesso, ma io non ricordo niente. A voi sembrerà un paradosso, ma alla fine di tutto io non so perché mi trovo qui. E potrei pentirmi soltanto semi ricordassi di avere fatto qualcosa. Siccome non mi rendo conto, non ho niente da perdonarmi».     

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