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Attentato a Belpietro

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di Filippo Facci

carlotta mariani
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«Sinceramente non ci ho mai creduto molto...» ha detto venerdì scorso Gerardo D'Ambrosio, già procuratore aggiunto del Pool di Milano e protagonista, il 14 aprile 1995,  di un attentato che fu sventato dallo stesso caposcorta che ha difeso a pistolettate il domicilio di Maurizio Belpietro. Non ci ha mai creduto molto, il senatore del Pd D'Ambrosio: però, allora, ci credettero tutti. Persino lui. Anzi: tutti evocarono dei foschi scenari. Gli attuali dioscuri del Fatto Quotidiano ci videro l'ombra della Cia, mentre il sostituto procuratore Armando Spataro - che ora indaga sull'attentato a Belpietro - lesse un allarmatissimo comunicato. Antonio Di Pietro pure. Insomma, ai tempi dubbi non ve n'erano, non servivano. Ma ricostruiamo. Era un venerdì e il casino politico era totale perché Silvio Berlusconi, la sera prima, aveva telefonato a Temporeale di Michele Santoro e aveva parlato del celebre invito a comparire che aveva ricevuto a Napoli nel 1994: «Mi risulta che Di Pietro», parole del Cavaliere in diretta, «non fosse così convinto di quell'atto firmato da tutto il Pool. Ma si tratta di un discorso privato tra me e lui, e quindi non lo voglio divulgare». Non lo voleva divulgare: e infatti aggiunse soltanto che Di Pietro gli aveva parlato il 18 febbraio direttamente ad Arcore, a casa sua, nella tana del lupo. La rivelazione fu paralizzante per tutti. Per la sinistra, certo. Per i tanti, a destra, che corteggiavano Tonino perché scalzasse il Cavaliere. E per chi, pure, vide solo un magistrato (in carica) che era andato a casa di un suo indagato per corruzione. D'Ambrosio, allora 66enne, era furibondo. Francesco Saverio Borrelli montò su tutte le furie: «Lo faccio buttare giù dalle scale a calci nel sedere». Di Pietro, non D'Ambrosio. Ma ogni tentativo dipietresco di districarsi dal ginepraio - che aveva creato lui - non farà che peggiorare le cose. Agguato numero uno Ma ecco che poi, sabato mattina, il 15 aprile, i lettori de La Stampa appresero che un uomo armato di fucile se n'era rimasto appostato nel giardino di una scuola materna posta proprio dietro l'abitazione di D'Ambrosio. L'asilo era chiuso per Pasqua e l'energumeno era pronto a sparare, ma un poliziotto lo scorse e chiamò D'Ambrosio dall'auto: «Non scenda». Erano le 9 del mattino e pioveva che Di Pietro la mandava. Dopo un po' il presunto attentatore rifece capolino ed ecco che l'uomo della scorta scese dall'auto e prese a inseguirlo: una cosa da telefilm, col fucile stretto in mano, sinchè l'attentatore raggiunse un complice e sparirono a bordo di una grossa moto. Testimoni: nessuno. Secondo il Corriere della Sera però non si trattava proprio di un fucile: il poliziotto stringeva in mano «un oggetto scuro e lungo» e non fu lui a telefonare al magistrato, ma un altro. Il 16 aprile, però, La Stampa cambiava versione: il fucile diventò «un'arma... nascosta sotto l'impermeabile grigio». Il Corriere in compenso riportò l'opinione del Questore, secondo il quale l'attentato restava solo un'ipotesi: tuttavia «È difficile pensare che l'obiettivo fosse un altro».  Chiaro. E l'arma, il fucile? C'era, era «appoggiato contro un muro».  Su La Repubblica però diventò «una carabina di precisione». Su l'Unità, «una mitraglietta». Scrisse La Stampa. «C'è l'identikit dell'uomo col fucile». Titolò Repubblica: «Non c'è ancora un identikit del killer».   L'estrema precisione delle cronache si evinse anche da altri preziosi particolari: il poliziotto era descritto elegante come un fotomodello, mentre l'arma era comparsa soltanto durante la fuga. Purtroppo non si era riusciti a prendere il numero di targa della moto, e l'unico indizio lo riportava l'Unità, che descrisse la moto come immancabilmente rossa. La solidarietà espressa dai magistrati milanesi fu invece puntuale e precisa: in un comunicato, diffuso da Armando Spataro, si leggeva che «I sostituti procuratori si stringono idealmente attorno ai loro capi, Borrelli e D'Ambrosio, oggetto di inauditi e ripetuti attacchi personali. A Gerardo D'Ambrosio, che ha ancora una volta rischiato la vita, esprimono solidarietà e affetto smisurati... auspicano che le autorità rafforzino le misure di protezione che lo riguardano. Auspicano altresì che le istituzioni intervengano a tutela dell'indipendenza della intera Magistratura». Quella non mancava mai. L'agenzia Ansa aggiunse che erano in cantiere «più incisive e clamorose iniziative» della Procura. Insomma, fecero quadrato: evidentemente, diversamente da D'Ambrosio, ci credevano anche loro. E non solo loro, visto che l'affare fece scattare un piano di rafforzamento della sicurezza del procuratore: fu rafforzata la vigilanza e raddoppiata la scorta; oltre agli agenti di tutela fu predisposto un rafforzamento della sorveglianza attorno alla casa e fu aggiunta un'auto di scorta che in pratica scortava la scorta. «D'Ambrosio», scrissero un po' tutti i giornali, «in passato era rimasto vittima di episodi dai contorni oscuri: una volta venne narcotizzato e rapinato in casa, successivamente ci fu un'incursione nella sua abitazione, mentre si trovava a palazzo di giustizia». Incredibile. Anzi, detto a D'Ambrosio: credibile.  Sempre più agguati Poi ci fu la conferenza stampa della Polizia: «L'attentatore si è comportato da professionista», disse il Questore Marcello Carnimeo. E l'agente, il medesimo che ha difeso Belpietro? «Ha fatto bene, ha agito con grande professionalità, un giovane molto affidabile e preparato» disse Carnimeo. Allora lo era, evidentemente. L'ipotesi che il killer volesse davvero sparare fu presa «molto sul serio», e l'attentato a D'Ambrosio fu definito «fallito per un soffio».  «Un episodio simile», riportò La Stampa, «si era già verificato nei mesi scorsi ai danni di un altro esponente di Mani pulite, Francesco Greco: alcuni inquilini avevano notato una macchina sospetta parcheggiata nei pressi della sua residenza: alcuni sconosciuti scrutavano con un binocolo le finestre del giudice». Pazzesco. Ci penserà l'agenzia Ansa a essere più precisa: «Le indagini non accertarono nulla. Nemmeno che quello sconosciuto avesse davvero come obiettivo delle sue attenzioni la casa di Francesco Greco ». L'affare comunque s'ingrossava, altro che «non ci ho mai creduto molto». Il Corriere della Sera rilevava che «Armando Spataro, numero uno dell'antimafia e bersaglio negli ultimi due mesi di due progetti di attentato, è tra i più turbati. «Sì, sono molto allarmato. Questo agguato appare indecifrabile, anche perché cade in pieno periodo elettorale. Ripeto, per la prima volta in vita mia sono davvero preoccupato». Chissà ora, visto che indaga sul caso Belpietro. Il 16 aprile 1995, del resto, La Repubblica ci aveva aperto la prima pagina: «Un killer per D'Ambrosio. A sette giorni dalle elezioni l'uccisione del giudice avrebbe creato una gravissima tensione politica». Dall'ipotesi di un attentato si era già arrivati all'uccisione del magistrato e alle possibili conseguenze politiche. Sempre il 16 aprile, che poi era la domenica di Pasqua, su Repubblica interveniva anche Di Pietro («Auguri a D'ambrosio») che cercava di spegnere le polemiche sulla sua visita ad Arcore raccontata da Berlusconi. Un paio di giorni dopo, infine, nuovi aggiustamenti nelle cronache: il poliziotto raccontava che era stato suo cugino e ricordargli che le scuole materne per rimangono chiuse per Pasqua. Ma secondo il Corriere - particolare decisivo - non era stato il cugino ad avvertirlo, ma il cognato. Sempre di mezzo. E D'Ambrosio? Diciamo che, se «non ci credeva molto», all'epoca lo tenne ben nascosto per sè. Lo nascose quantomeno a Repubblica: «La polemica tra me e di Pietro serve solo al nemico per isolarci. E se è vero che c'è un uomo con un fucile puntato su di me, questo significa che siamo già isolati». Da non crederci, non molto. Ovviamente, la Cia... Finita? Ma figurarsi. L'elaborazione definitiva dell'attentato a D'Ambrosio è stata successivamente messa al servizio (segreto) di un incredibile ricostruzione dietrologica contenuta nel libro “Mani pulite” di Gianni Barbacetto, Peter Gomez e Marco Travaglio. In orrenda sintesi: nel 1992 il Pool di Milano fu contattato da presunti emissari di «ambienti americani» che si proponevano di appoggiare i magistrati di Mani pulite e di aiutarli a scovare latitanti; il contatto e la proposta - e questo è vero, è appurato - finirono nella relazione riservata n. 58/92 che il pm Piercamillo Davigo indirizzò a Borrelli. Poi - anche questo è appurato - il Pool decise di parlarne al Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, che però rispedì i magistrati al mittente piuttosto seccato dall'ombrosità della vicenda. Gli svolazzi dei giornalisti de Il Fatto cominciano da qui e arriveranno sino all'attentato a D'Ambrosio. I tre, infatti, a pagina 67 del loro libro, con un giro contorto ricollegano i citati contatti «americani» a un protagonista dell'inchiesta del pm Guido Salvini su Piazza Fontana, il quale tizio, a sua volta, aveva rapporti con un uomo della Cia sotto copertura della Dea (l'agenzia antidroga) che a sua volta aveva contatti con l'ambasciata Usa a Roma e con il Sisde, oltre a essere stato l'ultimo a vedere vivo il banchiere Michele Sindona prima che lo avvelenassero in carcere. Nell'inchiesta di Salvini venne fuori che quest'uomo legato alla Cia, C.R., morto nel 1996, aveva svolto anche missioni in America Latina e in Corea e soprattutto aveva brigato per organizzare un attentato a Gerardo D'Ambrosio. Ci siamo, finalmente: «D'Ambrosio sarà effettivamente al centro di un inquietante episodio», scrivono i giornalisti de Il Fatto, ossia che «il 14 aprile 1995 la sua scorta metterà in fuga un misterioso personaggio appostato, forse con un fucile in mano, nel giardino di una scuola davanti alla sua abitazione. Di piú, su questo intreccio di avvocati, inquisiti, spioni e killer, non si riuscirà a scoprire». Questo per D'Ambrosio. Vedremo, a partire da Annozero di stasera, che cosa saranno capaci di fare e di scrivere per Maurizio Belpietro.

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