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Il commento di Filippo Facci sullo scontro tra l'ala intransigente del sindacato e la casa automobilistica di Torino

Andrea Tempestini
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Lo scontro tra Fiat e sindacati per certi aspetti è storico, come no. La trasformazione del lavoro e la sua possibile delocalizzazione sono temi centrali, senz'altro, sono legati ai discorsi sulla mobilità e sulla globalizzazione e tutte quelle cose lì. A Mirafiori si sono forgiate generazioni di italiani che si sono affrancate dal bisogno, che si sono riscattate da una condizione di immigrazione disperata, è vero anche questo: ma vogliamo chiederci lo stesso perché la questione campeggia furiosamente sulle prime pagine dei giornali? Le ragioni sono due, in realtà. La prima è che la politica sonnecchia ancora, non ci sono grandi notizie in giro. La seconda è che la nostra classe giornalistica, i cui vertici si sono formati negli anni Settanta e Ottanta, mostra un ritardo culturale pazzesco e tende a giudicare centrale un mondo che non è più centrale per niente. A non esser più centrali, per essere chiari, sono gli operai e la grande contrattazione sindacale: quel Paese lì non c'è più. Non sono operai i milioni di disoccupati che circolano in Italia e in Europa, e i milioni di precari, i licenziati, quelli che il lavoro manco lo cercano, quelli frantumati in contratti collettivi ormai atomizzati. Non sono operai, e di Mirafiori tutto sommato se ne fregano, anzi, osservano l'attenzione spasmodica rivolta a una minoranza e si chiedono soltanto perché non li riguardi.

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