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Jamila, battaglia vinta: lunedì torna a scuola

La ragazza pakistana sequestrata a Brescia da 15 giorni perchè voleva vivere all'occidentale. Famiglia convinta da console e polizia / CARIOTI

Federica Lazzarini
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Pare essersi conclusa a lieto fine la storia di Jamila (pseudonimo), la 19enne pakistana 'segregata' in casa dai familiari  perchè troppo bella.  Lunedì, Jamila tornerà tra i banchi di scuola. Almeno, così promettono la madre e i  fratelli dopo l'incontro di sabato mattina in Questura. Determinante è stato l'intervento del console pakistano, che è riuscito a convincere i fratelli che non avrebbero violato nessun principio dell'Islam se avessero accettato di far frequentare le lezioni a Jamila.  "La famiglia, che considerava disonorevoli le attenzioni ricevute dalla giovane e riteneva di doverla tutelare, si è molto stupita delle parole del console ma allo stesso tempo si è sentita rasserenata - spiega il dirigente della squadra mobile di Brescia - e alla fine ha accettato".  Prima di scomparire, Jamila aveva detto:" Non voglio finire ammazzata". Un déjà-vu che ci ricorda come la libertà delle ragazze musulmane sia anche la nostra. Nel 2009 Sanaa Dafani, marocchina di 18 anni, è stata uccisa dal padre perché voleva vivere con il fidanzato italiano a Pordenone. Nel 2006, a Brescia, Hina Saleem è stata sgozzata dal padre pakistano perché troppo occidentale. Ora, un'altra ragazza rischiava di essere sacrificata all'intolleranza e al fondamentalismo.  Leggi l'editoriale di Fausto Carioti pubblicato su Libero, nell'edizione di sabato 16 aprile. Con la stessa determinazione che in questi mesi li ha spinti a ripetere ogni giorno lo stesso sermone sul corpo della donna umiliato dal Sultano Berlusconi, le compagne femministe e i sessantottini convertiti al moralismo si preparano a ignorare la storia di Jamila. Che è un bel po' più triste e assai più comune di quella di Ruby, ma non fa notizia. Perché ciò che interessa davvero non sono mica i diritti delle donne: il punto è Silvio Berlusconi. Se non serve a sputtanare lui, la questione femminile smette di essere un confine di civiltà. Specie se per affrontarla bisogna avere il coraggio di ammettere che l'origine dello scandalo, in questa come in tante altre vicende, è la medioevale cultura islamica da cui proviene la famiglia della ragazza: esercizio complicato per chi sa dire solo che le culture sono tutte uguali. Succede a Brescia, non nei sobborghi di Islamabad. Jamila (il nome è di fantasia, bisogna proteggerla) ha 19 anni ed è stata chiusa in casa dai propri genitori e fratelli, musulmani provenienti dal Pakistan. Decisione adottata perché la ragazza ha la grave colpa di attirare gli sguardi dei coetanei maschili. Oltre ad essere carina, Jamila ha un cervello di prima categoria, ma rischia comunque di perdere l'anno scolastico a causa delle assenze. Questo può far scadere il suo permesso di soggiorno: se ciò accadesse, Jamila sarebbe costretta a tornare in Pakistan, dove ad attenderla ci sarebbe probabilmente un matrimonio combinato dai familiari con un uomo che ha il doppio dei suoi anni. Per una che ha visto da vicino la libertà concessa a tanti ragazzi italiani, sarebbe una condanna al carcere a vita. L'unica che s'indigna pubblicamente è Souad Sbai: la deputata del Pdl di origine marocchina denuncia «l'ennesimo scandalo causato dal buonismo multiculturale moderno, che tutto permette e tutto giustifica, sulla pelle della seconda generazione immigrata in Italia». A sinistra, solito silenzio: le uniche donne maltrattate sono quelle che accorrono alla villa di Arcore per mungere le tasche del premier. Il caso di Jamila non è isolato. Percosse e abusi ai danni delle ragazze da parte dei familiari sono pratica diffusa tra gli immigrati di certe nazionalità. Lo scorso novembre, nel modenese, una ragazza marocchina di 15 anni si è rifugiata al posto di polizia per fuggire dal padre, che l'aveva picchiata ritenendola «troppo occidentale». Un mese prima a Novi, sempre in provincia di Modena, Shahnaz Begum, una madre pakistana che voleva sottrarre la figlia a un matrimonio combinato, è stata ammazzata dal marito mentre la ragazza, per la stessa ragione, veniva pestata dal fratello. Prima, a Fano, era toccato ad Almas, una diciassettenne pakistana: i genitori l'avevano rapita dal centro d'accoglienza al quale la magistratura minorile l'aveva affidata per sottrarla alle botte del padre. Anche Almas si comportava troppo «all'occidentale» e pretendeva di sottrarsi a un matrimonio combinato. Prima ancora c'erano state Saana Dafani, marocchina di 18 anni, uccisa in provincia di Pordenone dal padre perché voleva stare col fidanzato italiano, e la povera Hina Saleem, sgozzata nei dintorni di Brescia dal padre pakistano, che non sopportava di vederla così poco rispettosa della tradizione islamica. E per un omicidio che finisce sulle pagine di cronaca, ci sono migliaia di maltrattamenti di cui non si saprà mai e centinaia di matrimoni combinati che ragazze, talvolta bambine, sono costrette ad accettare per paura. Un paese che ogni anno riceve decine di migliaia di nuovi immigrati dovrebbe avere il coraggio di spalancare le porte delle case dove vivono Jamila e le altre. Dovrebbe vedere cosa succede in quelle stanze e intervenire quando serve. In Italia si segue invece la strada opposta: si finge che il problema non esista - nemmeno quando è noto a tutti, come nel caso di Jamila - e si abbonda in retorica quando ci scappa il morto. Per poi continuare a commettere gli stessi errori. È il modo migliore perché gli immigrati di seconda generazione non si integrino e crescano come estranei nelle città italiane, finendo per riconoscersi solo nelle prediche di qualche imam fondamentalista. E dalle case ai quartieri il passo è breve: un palazzo dopo l'altro, in Francia e Regno Unito, intere aree del territorio nazionale sono state sottratte al controllo delle leggi dello Stato per finire governate dalle consuetudini islamiche. Salvare Jamila, darle la stessa libertà che abbiamo noi, è anche salvare un pezzo dell'Italia di domani: c'è qualcuno, in parlamento, al governo o altrove, che ha voglia di farlo? di Fausto Carioti

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