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Il gelido Fabio Fazio. Un abatino crudele con l'eterno vizio: quello della censura

Il libro di Pansa, viaggio nel soviet di Rai 3 / Dietro l'aria dimessa, un uomo che non guarda in faccia nessuno

Andrea Tempestini
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Molto più interessante di Serra, risultava il personaggio di Fazio, la cui presa di posizione a vantaggio della sinistra era scoperta, scopertissima. Nonostante questo, amava interpretare il ruolo opposto al televisionista settario. Era quello dell'abatino estraneo a qualsiasi parrocchia, amico di tutti e nemico di nessuno. Con l'aria dimessa, l'espressione sempre stupita, il vestito strafugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare. In realtà, nella Rai odierna frantumata in sultanati, Fazio era il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia a nessuno, curatore attento dei propri comodi. E all'occorrenza anche cattivo. Con la manina avvolta nella flanella grigia e lo stiletto avvelenato ben nascosto. Era con questa lama che Fazio, nel suo programma abituale, Che tempo che fa, praticava una censura inflessibile. Truccata da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglieva, ma discriminava. Gestendo in modo autoritario il potere di promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tv privata, però non alla Rai. Che è pur sempre pagata dal canone sborsato dai “tutti” ai quali Saviano voleva parlare. IL SETTARISMO GROTTESCO In più di un caso, il settarismo di Fazio aveva prodotto spettacolini grotteschi. Accadde quando presentò un libro del direttore dei giornali radio Rai unificati, Antonio Caprarica. Già redattore dell'Unità e poi condirettore di Paese sera, un quotidiano filo-Pci destinato a sparire. Era il maggio 2007, sotto il regime di Romano Prodi. Quella sera gli utenti della Rai ebbero sott'occhio un'ammucchiata tutta rossa: rete di sinistra, conduttore di sinistra, autore di sinistra in quota Ds. Un conflitto d'interessi sfacciato, fra compagnucci che si strizzavano l'occhio a vicenda. Felici di averla fatta franca, ancora una volta. In altri casi, lo spettacolo si rivelò penoso. Fazio aveva invitato Pietro Ingrao, affinché presentasse l'autobiografia, Volevo la luna, pubblicata da Einaudi. In preda a un vuoto di memoria, il vecchio capo comunista sostenne che il Pci aveva preso aspre distanze dall'invasione sovietica dell'Ungheria, nel 1956. Non era vero. Ma Fazio e il pubblico invitato si guardarono bene dall'obiettare. Nemmeno un mormorio, un colpo di tosse, un'occhiata d'imbarazzo. Come mai? Edmondo Berselli, un intellettuale libero scomparso da poco, lo spiegò così sull'Espresso: «Perché in quel momento si stava celebrando l'apoteosi senescente, ma non senile, di un comunismo impossibile, l'utopia, il grande sogno, l'assalto al cielo. E quindi tanto peggio per i fatti, se i fatti interrompono le emozioni». All'inizio del novembre 2009, scoprii che Fazio poteva anche sembrare bipartisan. Nel fare zapping con il telecomando, capitai su Che tempo che fa. Il compagnuccio Fabio dialogava con un destrone di grosso calibro, Fini. Anzi, più che dialogare, facevano cicì e ciciò. Si dice così dalle mie parti, per indicare due comari che se la contano amabilmente, talora sbaciucchiandosi. Fazio non mi aveva mai voluto nel suo salotto per una colpa imperdonabile: il mio presunto anti-antifascismo, attestato dai libri che andavo scrivendo sulla guerra civile. Però aveva accolto col tappeto rosso quel collaudato fascista di Fini. Il pretesto era un volumetto firmato dal presidente della Camera e messo insieme da chissà chi. Ma in realtà il motivo nascosto era un altro. Con il suo fiuto infallibile, Fazio aveva annusato che Fini si stava riciclando. E sarebbe presto diventato l'avversario numero uno di Berlusconi. A Fazio la verità dei fatti non era mai interessata. Soprattutto quando maneggiava un quadro della storia e della realtà italiana che faceva a pugni con il suo ristretto orizzonte politico. Per questo mi stupivo che Saviano lo ritenesse un buon samaritano, in grado di aiutarlo a dire la verità e parlare a tutti.   Poi Vieni via con me andò in onda. Il successo fu strabiliante. Quasi otto milioni di spettatori per la prima puntata. Addirittura nove nella seconda, un pubblico pieno di laureati e benestanti. In questo round vennero presentati due leader politici: Fini e Bersani, portati alla ribalta perché leggessero i loro compitini sui valori della destra e della sinistra. BANALI COMPARSATE A molti critici televisivi sembrarono comparsate banali. Ma non era per niente così. La novità del confronto, sia pure non diretto, fra il presunto capo della destra e l'altrettanto presunto campione della sinistra, stregarono il pubblico di Fazio & Saviano. In quel momento l'ascolto s'impennò a una quota superiore ai dieci milioni. Un record nel record. Che tuttavia non portò fortuna al programma. Infatti, la stessa sera Saviano fece una gaffe imperdonabile, tipica di chi non ha nozione della suprema potenza del mezzo televisivo. Disse che nell'Italia del Nord stava prendendo piede la grande criminalità organizzata, una verità ovvia che la carta stampata raccontava da tempo. Ma aggiunse un'affermazione rischiosa: al Nord la 'ndrangheta calabrese aveva come interlocutore la Lega di Umberto Bossi. Accadde il finimondo. Che mi obbligò a riflettere su quello che era diventata la Rai 3. Tutti sapevano che, anni addietro, la lottizzazione politica della Rai aveva assegnato la Tre al vecchio Pci. Le altre due reti erano diventate una proprietà di fatto della Dc, la Prima, e del Psi, la Seconda. Quando il sistema dei partiti andò a ramengo sotto i colpi di Mani pulite, l'equilibrio saltò. Ma la Tre rimase ben salda nelle mani della sinistra postcomunista. In fondo, era una sicurezza. Bene o male che fosse, esisteva un partito a impedire le mattane di una rete importante e dei suoi programmisti. Da tempo anche quest'ultimo vincolo si era dissolto. A partire dai primi anni Duemila, la Tre non rispondeva più a nessuno. Non alla sinistra democratica di Bersani. Non a quella manettara di Tonino Di Pietro. E neppure alla sinistra con l'orecchino di Vendola. A conti fatti, si poteva considerarlo un processo positivo, dal momento che i partiti dovrebbero stare lontani dalla Rai. Però esisteva un guaio: la Tre non rispondeva più neppure ai vertici dell'azienda. Il presidente della Rai, Paolo Garimberti, e il direttore generale, Mauro Masi, nelle stanze della Tre non contavano nulla. Avrebbero anche potuto gettarsi dall'ultimo piano di viale Mazzini e precipitare sul cavallo sottostante. Ma dalla Tre, e in particolare dal Tg3, non sarebbe partito neppure l'ultimo dei cronisti per registrare il suicidio della coppia.  Il ribellismo, la spavalderia, la sufficienza arrogante erano diventati il connotato fondamentale della Tre. Questi caratteri li interpretava alla perfezione il direttore della Rete, Paolo Ruffini, ritornato al comando in virtù di una sentenza giudiziaria, dopo l'interregno di Antonio Di Bella, l'ex direttore del Tg3 messo a guidare la rete alla fine del novembre 2009. Ruffini è un personaggio che andrebbe studiato a fondo da un team di sociologi e politologi, perché la sua storia riassume bene i percorsi tortuosi dell'Italia che conta. Paolo era cresciuto in una famiglia che vantava due eccellenze di grosso calibro. La prima era il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, un vero reazionario, uno degli uomini più potenti dell'isola. Nell'usare la parola, il cardinale non aveva riguardi per nessuno. Un giorno proclamò: «Tre cose, più di altre, hanno disonorato la Sicilia: la mafia, il romanzo del Gattopardo e lo scrittore Danilo Dolci!». La seconda eccellenza era il padre di Paolo, Attilio Ruffini, nipote del cardinale. Deputato democristiano per sei legislature, più volte ministro, anche alla Difesa e agli Esteri, lo ricordo come un doroteo calzato e vestito. Un uomo alla mano, in apparenza conciliante, sempre disposto a concedere qualcosa all'avversario politico. Benché fosse nato a Mantova, aveva il proprio collegio elettorale a Palermo. Ed è facile comprenderne il perché, vista la presenza del roccioso zio cardinale. Ho scritto una volta che anche il giovane Paolo doveva avere nelle vene un tantino di doroteismo, aggiornato con furbizia. Invece di gettarsi nella bolgia dei partiti o entrare in seminario, Ruffini junior si era dato al giornalismo. Lo ricordo come un bravo collega, notista politico del Mattino di Napoli e poi del Messaggero. Nel Transatlantico di Montecitorio mi colpiva il suo restare un po' in disparte rispetto agli altri cronisti. Aveva l'aria del ragazzo timido e per bene. Che si accontenta del ruolo che ha conquistato e non ne ricerca uno più importante. Non era così. Come molti esseri umani, anche lui aveva traguardi ambiziosi. E un carattere molto più ferreo di quello che lasciava immaginare l'apparenza. La sua carriera fu rapida. Nel 1996, a soli 42 anni, diventò all'improvviso il direttore del Giornale radio Rai. Di qui spiccò un altro balzo sulla poltrona di direttore di Rai 3. Qualche malignazzo sostenne che aveva conquistato quel posto in virtù della militanza, sempre molto discreta, nella Margherita, la parrocchia degli ex democristiani di sinistra. Ma una volta arrivato al vertice della Tre, rivelò di avere ben altre idee rispetto alle tradizioni di famiglia. IL PERFETTO CATTOCOMUNISTA Un tempo si sarebbe detto: ecco un perfetto cattocomunista. Ma oggi il comunismo non esiste più. Dunque cancelliamo l'etichetta. E diciamo che il Ruffini era soltanto un uomo di potere che considerava la Tre una sua proprietà personale. Ancorché pagata dai contribuenti e da quanti versavano il canone alla Rai. Non ho mai avuto rapporti con il colosso di viale Mazzini. Ma ho imparato che il potere dei direttori di rete dipende dalla forza dei programmi che mandano in onda. Nell'autunno del 2010, il potere di Ruffini crebbe a dismisura. Per merito dell'audience fenomenale di Vieni via con me.  Per gli altri talk show, invece, fu una botta da ko. Il lunedì sera 15 novembre, il sinistro Gad Lerner, con il vecchio Infedele tanto pompato da La7, venne ridotto al 2,14 per cento, appena 606 mila spettatori, meno di un decimo rispetto alla coppia Fazio & Saviano. Anche quelli di Rai 3, tutti rossi, mangiarono la polvere. A cominciare dal Ballarò di Floris, per finire al Parla con me della ridanciana Dandini, in drastica flessione di ascolti. Secondo ItaliaOggi del 18 novembre 2010, anche Fazio cominciò a riflettere su una sorpresa allarmante: il programma con Saviano si stava rivelando un boomerang pure per lui. Aveva di fronte due cifre. Vieni via con me era arrivato a un tetto di dieci milioni e 430 mila spettatori. Una vetta irraggiungibile per il suo Che tempo che fa, fermo a meno di quattro milioni. Tutto merito di Saviano, dunque? Sembrava di sì. Lo strapotere rese il Ruffini arrogante all'eccesso. Davanti alla sacrosanta richiesta del ministro dell'Interno, Roberto Maroni, di potersi confrontare in diretta con Saviano sul tema Lega e 'ndrangheta, il boss della Tre rispose no. Poi, bontà sua, concesse a Maroni appena una replica da leggere solo e soletto in una delle pause di Saviano. Ma il troppo, o il troppo poco, stroppia. Anche i televisionisti di sinistra mugugnarono. Me ne resi conto nel vedere su La7 Otto e mezzo di Lilli Gruber. Come ho ricordato, era un programma che stava diventando sempre più prigioniero dell'ossessione anti-Cavaliere, errore madornale per una rete privata e piccola. Eppure, l'autore della Gruber, Pagliaro, si dimostrò schietto sul conto di Ruffini: il suo no a Maroni era opaco e la motivazione poco liberale. Alla Tre si saranno chiesti: Pagliaro chi? E questa Gruber è forse la vecchia deputata europea del defunto Ulivo? Li sentivo sghignazzare, Ruffini e i suoi centurioni. Da quando avevano scoperto di avere milioni di baionette, si sentivano dei padreterni. E non volevano avere tra le palle chi non portava il cervello al loro ammasso. Dunque, niente confronto in diretta tra Maroni e Saviano. Quest'ultimo aveva già messo le mani avanti, nel tentativo di respingere il ministro dell'Interno. Il 17 novembre 2010, intervistato per Repubblica da Goffredo De Marchis, l'autore di Gomorra si permise un gesto di sciocca arroganza. Lo fece nel replicare alla richiesta di Maroni che aveva detto: «Saviano deve ripetere quello che ha affermato sulla Lega guardandomi negli occhi». IL 'BOSS' DELLA LEGA Saviano raccontò: «Le parole di Maroni mi hanno inquietato. Su Repubblica avevo scritto una lettera a Sandokan Schiavone, dopo l'arresto del figlio. Lo invitavo a pentirsi. L'avvocato di Schiavone mi rispose: voglio vedere se Saviano ha il coraggio di dire quelle cose guardando Sandokan negli occhi. Per la prima volta, da allora, ho riascoltato questa espressione. E sulla bocca del ministro dell'Interno certe parole sono davvero inquietanti». Meglio starsene al riparo di Rai 3. E andare giù con il manganello su chi non era più in grado di difendersi. Mi sembrò ignobile affermare, sempre per bocca di Saviano, che il vecchio politologo Gianfranco Miglio era un sostenitore della mafia. Ho conosciuto bene Miglio, uno dei padri della Lega: non era per niente così. Se fosse stato ancora vivo, avrebbe dato all'autore di Gomorra la paga che si meritava. Ma il professore era scomparso nove anni prima. Dunque era la vittima giusta per la ditta Fazio & Saviano. Chi è morto tace. E non può replicare a nessuno. Per farla corta, anche la tv, e non soltanto la carta stampata, aveva iniziato a dettare l'agenda alla politica. Dimostrando di essere lei a comandare al posto dei partiti. Interpellato da Daniele Bellasio del Sole-24 Ore, il giorno successivo al boom di Vieni via con me, Alessandro Campi, l'intelligente politologo di Fini, disse parole che ci obbligano a meditare. Campi spiegò, alludendo al Cavaliere: «Chi di televisione ferisce, di televisione perisce. Siamo di fronte al contropotere anti-berlusconiano che si è organizzato in forma efficace. La novità è che Vieni via con me non è la solita trasmissione contro il premier. Ma è una narrazione che ha molto a che fare con il clima di svolta dell'oggi e che catalizza le masse». Anche più smagliante fu la conclusione di Grasso. Di Vieni via con me scrisse: «È il calco di una cerimonia religiosa, di una messa, di una funzione liturgica. Gli elenchi, di ogni tipo, su ogni argomento, assomigliano alle litanie. L'officiante è Fazio, lui trasferisce sui fedeli quell'aura di senso di colpa che gli trasfigura il volto. La doglianza gli dà potere. Mostrarsi vulnerabile (i ricchi contratti non gli impediscono di piangere sempre miseria) è la sua garanzia di invincibilità, tra un Alleluia e una via Crucis». Si può criticare una messa? Certo che si può. Ma nel farlo si fa peccato. Dunque non ci resta che inginocchiarci davanti a monsignor Fazio. E chiedere umilmente perdono. di Giampaolo Pansa

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