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Le tensioni in Medio Oriente: prezzo della Primavera Araba

I terrroristi palestinesi protetti dai Fratelli Musulmani adesso sono sempre più forti in Egitto. Entrano in Israele dal Sinai

Andrea Tempestini
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Se davvero, come sostiene il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, l'attacco terroristico di ieri nella zona turistica di Eilat, sul Mar Rosso, ha avuto origine da Gaza, allora va rimessa in discussione non solo la strategia antiterrorismo egiziana, ma anche l'ingenuo approccio occidentale alle rivoluzioni in corso nel Medio Oriente. Al Cairo, dalla caduta del regime di Mubarak in poi, tutto il potere è in mano ai militari, che declinano ogni responsabilità per l'eccidio di ieri. La frontiera con lo Stato ebraico, assicurano, è ben controllata. I terroristi dunque non possono essere passati dall'Egitto. All'apparenza l'esercito e le forze di sicurezza egiziani non hanno nulla da rimproverarsi. In effetti, la settimana scorsa  hanno lanciato l'Operazione Aquila, con il placet di Israele. Hanno schierato le loro truppe meccanizzate nella penisola del Sinai, duemila uomini impegnati a stanare gli estremisti islamici e le bande di beduini intenzionati a prendere il controllo della regione. Negli scontri, finora, un terrorista è stato ucciso, dieci sospetti e sei ricercati sono stati arrestati. Sarebbe piuttosto difficile ignorare il contributo dato dagli egiziani per evitare sabotaggi ai gasdotti nella penisola e per fermare il contrabbando di armi con la Striscia di Gaza. Tuttavia, secondo il quotidiano di Tel Aviv Haaretz «è ora evidente che i soli sforzi egiziani non sono sufficienti» e che Tsahal deve nuovamente rafforzare il controllo della frontiera meridionale, estremamente ridotto negli ultimi trent'anni. Per questo è necessario completare al più presto le fortificazioni lungo il confine. Lo confermano implicitamente i colpi di mortaio sparati ieri dalla Striscia di Gaza contro i militari israeliani impegnati nella manutenzione alla recinzione di sicurezza al confine tra lo Stato ebraico e l'Egitto. A far sospettare un coordinamento fra le azioni, il lancio di colpi di mortaio è avvenuto mentre erano in corso gli attacchi multipli nel sud di Israele. È la riprova che la vulnerabilità di Israele dipende da un fronte ancora scoperto nella lotta internazionale al terrorismo. In quel vuoto si muovono a loro agio i terroristi di Hamas, protetti istituzionalmente dai Fratelli Musulmani, che in Egitto puntano alla conquista del potere attraverso le prossime elezioni legislative di settembre. La minaccia contro Israele, insomma, non dipende tanto da lacune nella sicurezza quanto da una mancanza di volontà politica. Alla giunta militare del Cairo, destinata a breve ad abbandonare il potere, non si può chiedere molto di più. Dai governi impegnati nel dialogo con i Fratelli Musulmani, invece, si dovrebbe pretendere ben altro che la legittimazione del fondamentalismo islamico. C'è un banco di prova, il prossimo 20 settembre, quando i palestinesi di Abu Abbas, ormai alleati di Hamas, presenteranno all'Assemblea delle Nazioni Unite la richiesta di essere riconosciuti come rappresentanti di uno Stato sovrano. È prevedibile che quel gesto di proclamazione unilaterale non avrà successo, sebbene pare vi abbiano aderito già 122 Paesi. Ma è altrettanto probabile che si moltiplicheranno le pressioni esercitate dal Quartetto formato da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu, nei confronti del governo di Gerusalemme affinché cessi di consentire la costruzione degli insediamenti ebraici, che finora rappresentano l'unico ostacolo concreto alla nascita di uno Stato terrorista. Sarebbe troppo tardi se l'evoluzione della “Primavera araba” si dovesse tradurre soltanto in un indebolimento del diritto all'esistenza di Israele. A quel punto le illusioni sull'avvento della democrazia in Medio Oriente si tramuterebbero in amare delusioni. di Andrea Morigi

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