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Rossi compagni anti-padani Caccia ai ciclisti del nord

Figuracce mondiale. Assalto rifondarolo alla seconda tappa del giro di Padania. Gli atleti si ribellano, i progressisti se la ridono

Andrea Tempestini
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Fa male constatare come l'ignoranza della preistorica sinistra extraparlamentare riesca ancora a colpire, danneggiando al grido di «la Padania non esiste» perfino il ciclismo, quello sport che più popolare e proletario non si può, quello sport che volando sull'epica del sacrificio ha azzerato ogni distanza sociale, estetica. Quello sport che nel 1948, grazie al coraggio e alla toscanaggine di Gino Bartali (vincitore del Tour ma picchiato ripetutamente dai francesi), ha salvato l'Italia dalla guerra civile dopo l'attentato al comunista Togliatti. Fa male notare come perfino la Gazzetta dello Sport, per meri interessi di business, si schieri contro il Giro della Padania (non lo organizza Rcs...), suggerendo che questa sia «chiaramente la corsa della Lega», e che abbia rinominato così la Monviso-Venezia solo «come cassa di risonanza». È lo stesso identico palcoscenico calcato dai contestatori che da due giorni stanno mettendo i bastoni fra le ruote alla “corsa verde” irrisa dalla sinistra chic. Non è questa altrettanta propaganda? Peccato che adesso le bandiere rosse (esistono ancora?) abbiano superato il limite della legittimità. Dopo lo show del rifondarolo Paolo Ferrero a Mondovì, ieri (insieme a Pd, Cgil, Arci, Anpi) c'è stata una più violenta replica a Savona, in occasione della seconda tappa. Sonny Colbrelli (Colnago), under 23, ha rimediato un pugno (sporta denuncia), Ivan Basso e Sacha Modolo denunciano autentiche aggressioni: «Siamo ciclisti, siamo venuti per correre e chiediamo solo che il pubblico ci permetta di farlo. Siamo professionisti, chiediamo rispetto nei confronti del nostro lavoro. Qualcuno è andato oltre e ci ha rifilato delle sberle. Questi comportamenti sono inaccettabili non accettiamo che i nostri sforzi vengano resi vani così». Coinvolti anche un poliziotto e un carro funebre diretto in chiesa per i funerali. «Non ci vengano a dire che è soltanto una gara in bicicletta», sibilava la rosea. Per i politici no, per i ciclisti sì, come abbiamo visto e sentito. Quei pedalatori che onorano il contratto, quelli anche stranieri (e così rimediamo l'ennesima figuraccia internazionale) per cui il “Padania” (oggi terza frazione, Lonate Pozzolo-Salsomaggiore Terme di 198 km) è un buon test per le gambe in vista dei mondiali di Copenhagen, fra 10 giorni. Rassegna iridata per cui gente come Modolo (preceduto ieri in volata sul traguardo di Vigevano da Viviani della Liquigas - entrambi in odore di convocazione) sta sputando sangue pur di esserci proprio con la maglia azzurra. Diplomatico Gianni Bugno, ex campione iridato e presidente del sindacato mondiale dei corridori (Cpa): «Andava fermato, così ci vanno di mezzo i corridori», fuori fase i contestatori: «Il Giro di Padania è l'ennesima trovata della Lega», ha commentato il vicesegretario del Pd ligure, Giovanni Lunardon, mentre Ferrero intima alla Federciclismo di annullare tutto «evitando che i problemi aumentino. Le proteste continueranno e a questo punto è evidente che non si tratta di un bluff». Magari se scattassero le manette (la Digos di Savona ha identificato P.P., 73 anni, tricolore al collo, ripreso in foto mentre mette le mani al collo di Modolo), uscirebbero rafforzate le parole di Renato Di Rocco, presidente Federciclo: «Non avevamo motivi per non dare il via libera alla corsa. Queste violenze non hanno niente a che fare con il ciclismo». Chiaro il leghista Paolo Franco: «Questo dimostra cosa succederebbe alla democrazia se ci fossero Di Pietro, Grillo e Vendola al Governo: minacce, scioperi e botte per chi non la pensa come loro». E oggi, delle violenze, gli acuti Grasso (Corriere) e Gramellini (La Stampa), cosa scriveranno? Che sono «immaginarie»? Che «non esistono»? Faranno ancora ironia sull'«ultima trovata»? Per chi tiferanno?  Paradosso, di Ferrero e sodali sarebbe fiero il Duce, uno che gli sport li ha amati tutti tranne il ciclismo, che sopportava solo quando c'era da salre sul carro dei vincitori: perché il ciclismo «è sport di poveri, di un'Italia stracciona ed affamata, da nascondere». Che ne dite, compagni? di Tommaso Lorenzini

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