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Tutte le balle sugli immigrati Bugia 1: fanno lavori di scarto

L'inchiesta di Libero sugli extracomunitari. Altro che risorsa, fanno concorrenza ai commercianti e ci costano quanto due finanziarie

Andrea Tempestini
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In queste settimane il dibattito si infuoca attorno alla manovra economica e tutti hanno suggerimenti su dove e come ridurre le spese. Nessuno però dice mai di intervenire su una delle voragini che si inghiottono i soldi della comunità: l'immigrazione. È stata abilmente fatta passare l'idea che gli immigrati siano una risorsa, una ricchezza, che siano quasi i soli a contribuire in positivo alle dissestate casse comuni. Sull'immigrazione è stata fatta una colossale opera di disinformazione.  I principali gruppi di motivazioni che vengono solitamente tirati fuori per giustificare l'immigrazione sono: 1) che i nuovi cittadini pagheranno le nostre pensioni, 2) che gli immigrati fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare, 3) che gli immigrati sono una risorsa economica, 4) che sono una ricchezza sociale, 5) che pongono rimedio alla nostra denatalità, 6) che abbiamo il dovere della solidarietà. Vediamo di esaminare soprattutto i punti aventi incidenza economica, non senza avere prima fatto una indispensabile premessa. Secondo l'Istat, nel gennaio 2011 ci sono in Italia 22.832.000 occupati, 14.989.000 inattivi (fra i 15 e i 64 anni) e 2.145.000 disoccupati: l'8,6% della forza lavoro, il 29,4% di quella giovanile. Nel biennio 2009-2010 gli occupati sono scesi di 532.000 unità, cioè la disoccupazione è in aumento. Nel 2010 un quinto dei disoccupati è straniero, e cioè più di 400.000 persone. Alla fine del 2007 gli stranieri disoccupati erano il 9,5% e gli italiani il 6,6%. Nel 2010 il tasso di occupazione degli stranieri è sceso dal 64,5 del 2009 al 63,1, e quello di disoccupazione è passato da 11,2 a 11,6. Nel 2005 i cassintegrati stranieri sono stati 65.546 su 613.151: il 10,7% del totale. Nel 2010 ogni 10 nuovi disoccupati, 3 sono immigrati. Da tutto questo si deduce con grande chiarezza che il mercato del lavoro italiano è in crisi, che diminuiscono i posti di lavoro e che non c'è alcuna necessità di altri stranieri che non vengono a sopperire a mancanza di mano d'opera ma a sostituire quella italiana, addirittura favorendone l'espulsione dal mercato. Questo trend è dimostrato dal fatto che fra  il 2005 e il 2006 circa il 42% dell'aumento di occupati è straniero, la percentuale diventa il 66% nel 2006-07, cioè gli stranieri si inseriscono nel mercato del lavoro più degli italiani (nel 2007 il tasso di attività della popolazione italiana in età fra 15-64 anni è del 60,0% , quello degli stranieri del 73,2%). A questo concorre il fatto che gli italiani sono più vecchi ma anche che le retribuzioni medie degli stranieri sono inferiori del 24% rispetto a  quelle dei lavoratori italiani. Insomma non si tratta di fare lavori che gli italiani rifiutano, ma di farli a stipendi più bassi. Questo ha anche a che fare con l'identikit delle imprese che prediligono forza lavoro immigrata, che sono essenzialmente artigiane, collocate in settori tradizionali, a basso livello tecnologico e basate su un modello organizzativo centrato sui bassi salari più che da aumenti consistenti di produttività. Sono perciò le attività più a rischio di chiusura e che tentano di combattere la concorrenza estera facendo lavorare manodopera immigrata, quasi una sorta di delocalizzazione del lavoro invece che dell'imprenditorialità. È un cerchio rischioso oltre che immorale: si toglie lavoro agli italiani a vantaggio di chi costa meno facendone ricadere i costi sociali sulla comunità. Tutto questo nel campo del lavoro dipendente e scarsamente qualificato. IL COMMERCIO I dati ci raccontano però anche un'altra storia. A fine 2007 gli stranieri sul mercato del lavoro erano il 6,5% della forza lavoro totale, più della metà dei quali (il 56,2%) nei servizi, nel commercio e nell'artigianato, cioè lavoratori autonomi. Nel 2010 c'erano 213.267 imprese  con titolare straniero: il 3,5% di tutte le imprese e il 7,2% di quelle artigiane. Il fenomeno conosce tassi di aumento vertiginosi. Altri 69.439  stranieri sono soci di imprese cooperative. Riesce a questo punto difficile sostenere che i cinesi – ad esempio – facciano i bottegai perché gli italiani rifiutino tale lavoro, o gli egiziani i pizzaioli, o gli albanesi gli artigiani e così via. I lavori legati al commercio sono, in particolare, un evidente segno di colonizzazione e conquista del mercato, non certo una forma di sopravvivenza economica o – meno che meno – di supporto a una manodopera carente. Insomma, più della metà degli stranieri che lavorano regolarmente si dedica ad attività che in nessun modo possono essere considerate rifiutate dagli italiani. Se le liste di collocamento, le statistiche di disoccupazione o gli elenchi di cassintegrati si riempiono di stranieri, che senso ha farne venire altri? Inoltre, è vero che alcuni di loro fanno lavori pesanti, socialmente squalificati o anche pericolosi ma è sicuramente vero che tali lavori non vengano assunti dagli italiani solo perché non vengono pagati abbastanza. È un problema che potrebbe essere risolto sia lasciando operare la legge del mercato (se non si trova nessuno che lo voglia fare a quel prezzo, si aumenterà il prezzo) che incentivando economicamente i lavori più disagiati.   Il primo caso non può però funzionare se il mercato viene lasciato aperto a tutti i disperati del mondo: ci sarà sempre qualcuno disposto anche solo temporaneamente ad accettare le condizioni più sfavorevoli e il prezzo sarà perciò tenuto basso. Lo fanno solo per un po' e poi si trovano qualcosa di meglio innescando così un doppio processo perverso: l'esigenza di lavoratori a basso costo diventa continua e l'operazione di abbassamento del costo del lavoro si trasferisce anche verso l'alto e finisce per intaccare tutti i livelli sociali. Il danno è generale con il degrado della qualità del lavoro, l'abbassamento dei salari e l'allontanamento dei lavoratori autoctoni più anziani o meno specializzati che non possono sostenere la concorrenza dei nuovi arrivati. Questi accettano posizioni disagiate (o a condizioni meno favorevoli) per un po' ma poi si sindacalizzano e così il gioco si ripete all'infinito con danno per tutti. Con alcuni miliardi di diseredati al mondo ci sarà sempre qualcuno disposto a concedersi per meno fino alla catastrofe economica e sociale. Già oggi ci sono stranieri con ruoli dirigenziali e il processo di “scavalco” delle fasce più deboli degli italiani è favorito dai livelli di istruzione degli immigrati (il 12% ha una laurea, il 41,2% un diploma): il fenomeno del brain waste (sottoutilizzo delle capacità intellettuali) non può che essere temporaneo e nel tempo gli stranieri più giovani, più scaltri o istruiti finiranno per “scavalcare” gli italiani meno capaci relegandoli sempre in fondo alle classifiche sociali ed economiche. Da mettere in conto al fenomeno immigratorio c'è  il peggioramento delle condizioni degli italiani più deboli. IPOTESI DI RISPARMIO Si parla di lavoratori da fare venire in un paese in cui c'è un tasso di disoccupazione fra i più alti del mondo occidentale, in cui si pagano sussidi di disoccupazione e stipendi a “lavoratori socialmente utili” giusto per mantenerli, in cui ci sono milioni di pubblici dipendenti (una bella fetta dei quali “poco utili”), ci sono milioni di pensionati baby e di  finti invalidi a cui si passa una pensione a mo' di regalia, e dove ci sono legioni di cassintegrati. Una grossa fetta della ricchezza prodotta serve per mantenere gente che non ha lavoro, che non vuole lavorare o che fa pochissimo per il vantaggio della comunità. Si tratta di una cospicua forza lavoro che potrebbe essere impiegata a uguale costo in attività più utili per tutti. In ogni caso è folle sostenere la necessità di fare venire da fuori qualcuno che faccia il lavoro che potrebbero benissimo fare tutti questi. Se proprio ci sono attività molto sgradite, si deve risolvere il problema con i mezzi che abbiamo, magari integrando gli stipendi per i lavori sgraditi ma necessari. Costerà sempre meno che mantenere tutto l'ambaradan dell'immigrazione. Si possono dare stipendi da nababbi a conciatori e raccoglitori di rifiuti e risparmieremo in ogni caso, come comunità, una montagna di soldi che ora va in assistenza, accoglienza, prevenzione, controllo, rimpatrio eccetera, degli immigrati. di Gilberto Oneto

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