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Guerra commerciale: la Cina vuole bloccare il cibo italiano

La capitale del falso ci accusa di falso e scende in battaglia contro gli alimenti made in Itali. Già fermato l'olio perché "non è del Belpaese"

Andrea Tempestini
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È il bue che dà del cornuto all'asino. La Cina, che è il paese delle contraffazioni, ci mette sotto inchiesta per colpa dell'olio d'oliva taroccato. Secondo lo Shangay daily e l'ufficiale Quotidiano del Popolo,  le dogane cinesi «hanno avviato ispezioni sull'olio di oliva importato dall'Italia dopo che un'organizzazione degli agricoltori ha dichiarato che produttori senza scrupoli avrebbero spacciato miscele di olio a basso costo provenienti da Grecia, Spagna, Marocco e Tunisia come olio extravergine superiore». Un danno d'immagine così forte che il nostro ambasciatore si è precipitato a chiarire e ha assicurato le autorità cinesi «che la nostra produzione è controllata». Sta di fatto però che sull'olio d'oliva in Italia ci sono molte perplessità. La legislazione è lacunosa, la produzione deficitaria dal punto di vista delle quantità (ne facciamo 6 milioni di quintali, ne consumiamo nove, ne esportiamo circa 3) e da anni ormai i grandi marchi italiani sono in mani spagnole. Non è un caso che le organizzazioni agricole hanno chiesto più tutela per i nostri oli extravergine di oliva e più severità nei controlli a cominciare dalla Puglia che è la regione del mondo dove se ne fa di più: un milione e mezzo di quintali. Ma lo scivolone sulla macchia dell'olio mette in rilievo la totale sottovalutazione che c'è in Italia rispetto all'agricoltura e all'agroalimentare di qualità. Appena ieri il ministro per l'agricoltura Mario Catania ha annunciato con un qualche (giustificato) orgoglio che proprio l'olio d'oliva Vulture ha ottenuto la Dop ed è la numero 238 del nostro Paese che conta il 21% delle produzioni comunitarie a marchio di garanzia: più di tutti. Da una parte continuiamo a produrre eccellenze, dall'altra ci facciamo beccare con le dita nella marmellata da chi nel mondo campa alle spalle della nostra agricoltura. L'Italia ha il record di tentativi di imitazione. Si stima che il giro d'affari legato ai falsi prodotti agroalimentari made in Italy valga 60 miliardi (poco meno della metà del fatturato di settore) e che 3 su 4 prodotti venduti nel mondo come italiani siano in realtà delle volgari imitazioni. Con un doppio danno: concorrenza sleale e appannamento dell'immagine. Ma mentre noi facciamo pochissimo per contrastare i falsi – anzi li finanziamo pure come il pecorino rumeno o la bresaola uruguaiana prodotti da un caseificio e un salumificio di cui è socio il nostro governo attraverso la Simest – ancor meno per promuovere gli originali, gli altri ci invadono (è il caso della Cina con il miele, con l'ortofrutta, con un milione di tonnellate di concentrato di pomodoro e un incremento di export del 227% tale da avere messo in ginocchio la nostra industria conserviera) con prodotti dubbi – mozzarelle blu, ortaggi all'escherichia coli, maiali alla diossina -  e alzano contro di noi barriere doganali più o meno occulte. È il caso dei dazi russi e indiani sui nostri vini, dei controlli cinesi che dall'olio pare si estenderanno a tutto il food&wine italiano, del Canada e dei Paesi scandinavi che gestiscono l'import di vino attraverso i monopoli,  dei dazi brasiliani e dei severissimi controlli che gli Usa stanno imponendo al made in Italy. Proprio gli americani che hanno,insieme all'Australia, il record di imitazioni dei nostri prodotti in un catalogo dove spiccano dal Parma ham (Usa) all'Asiago del Wisconsin (Usa), dal Tinboonzola (Australia) al Parmesao (Brasile) o al Reggianito (Argentina), e che vendono il 97% della pasta, il 94% dei prodotti sott'olio e il 76% delle conserve di pomodoro false ci stanno imponendo un nuovo dazio camuffato da controlli di qualità a spese delle nostre aziende. Pensare che basterebbe recuperare il 10% del mercato dei falsi per dare ai nostri campi e alle nostre industrie una vera prospettiva di sviluppo. Ma noi facciamo i compiti che l'Europa, quella stessa Europa che concede le Dop ai prodotti cinesi senza pretendere la reciprocità, che non ha fatto nulla per difendere i nostri marchi in sede di Wto, ci impone tirando la cinghia e ci facciamo dare lezioni di correttezza commerciale dai cinesi. È tutto dire! di Carlo Cambi

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