Cerca
Logo
Cerca
+

Facci Mani Pulite vent'anni dopo: Tangentopoli? E' finita per coprire Tonino Di Pietro

Il leader Idv di dimise alla fine del 1994, spaventato dall'ispezione ministeriale: aveva troppe cose da nascondere

Andrea Tempestini
  • a
  • a
  • a

Sono in pochi ad avere il coraggio di dire la verità (tutta) circa la fine di Mani pulite: perché è una verità che non serve a nessuno. Non serve a quei manettari professionali che hanno sempre bisogno di prefigurare un'elite disonesta e vessatoria (in genere politica) che a loro dire lucra su una maggioranza onesta e vessata, ciò che un tempo avrebbero chiamato società civile. Non serve ai partiti d'ampio respito che vorrebbero rappresentare grandi fasce di popolazione: troppo estese per poter rivedicare moralità e moralismi come precetti-cardine. Non conviene alla magistratura più militante, tantomeno conviene a quell'informazione che sullo sfondo della contrapposizione casta/cittadini si illude di raschiare eternamente copie e ascolti.  Sicché circolano scampoli di verità. Mani pulite finì perché Antonio Di Pietro si dimise alla fine del 1994: il neogoverno berlusconiano gli sventolò un'ispezione ministeriale davanti al naso e poi, un secondo dopo che si era dimesso, la richiuse; Di Pietro ammise pubblicamente di essere rimasto condizionato dall'ispezione - se non ricattato - talché si dimise dopo averne saputo la chiusura, e però intanto continuò a spiegare al mondo che non aveva niente da nascondere. Un sostanziale baratto, un affare in cui ciascuno pensava di fottere l'altro: da una parte perché Di Pietro da nascondere aveva un sacco di cose (tutte nero su bianco nella sentenza del Tribunale di Brescia n.65/1997 del 29.1.1997, dove si spiega che certi suoi comportamenti gli avrebbero fruttato perlomeno dei provvedimenti disciplinari) e dall'altra perché le sue ambizioni politiche erano stagliate da un pezzo, e lo si è visto. E perché? Perché «Mani pulite è finita, i tempi sono cambiati, non c'è più acqua nel mulino delle indagini, voglio scendere da cavallo prima di essere disarcionato»: così aveva confidato al gip Italo Ghitti nell'aprile precedente. Senza un certo clima, poi, Di Pietro valeva poco: e lo dimostra quando accadde al Pool dopo l'abbandono. Pm come Paolo Ielo ed Elio Ramondini tentarono di riesumare, concludere, archiviare o smistare procedimenti che erano stati l'architrave di Mani pulite: ma che erano rimasti un po' così, sospesi in quella fase preliminare dominata dagli interrogatori di Di Pietro, che in definitiva aveva portato sino in fondo solo il processo-vetrina a Sergio Cusani e il processo Enimont che ne era il clone: istruttorie semplici perché fondate perlopiù su confessioni. Ramondini e Ielo ebbero l'ingrato compito di raccappezzarsi nelle montagne di faldoni di cui soltanto Di Pietro conosceva una logica che spesso non c'era. Ramondini scoprì che montagne di atti sulla Fiat erano preclusi alle procure di mezz'Italia. Ielo perdette mesi per riordinare le carte dei filoni Pci-Pds, e quei pochi processi che si sono conclusi si devono a lui. La vecchia guardia del Pool, invece, puntava su Berlusconi: e questo convinceva pochissimo una larghissima fetta di Paese. Lo scenario era stava cambiando. Prima c'era Di Pietro che martellava, mentre agli altri pm, come dirà Francesco Greco, «competeva un lavoro di ricostruzione successivo agli interrogatori... ma la situazione si è modificata nel corso del 1994 quando le collaborazioni diminuirono fino a cessare. Fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino, la tecnica investigativa cambiò». L'acqua, a dirla tutta, arrivava al mulino direttamente dal carcere. Era il carcere, irrogato o temuto, che stimolava le collaborazioni. Era il carcere, coi suoi effetti, che era venuto a mancare durante quel cambio di stagione che Tonino aveva subodorato. E' quasi divertente come i colleghi Barbacetto e Gomez e Travaglio, nel loro tomo «Mani pulite», appena rinfrescato, cerchino di dissimulare questa verità elementare: «Fin dai primi interrogatori, per una fortunata e forse irripetibile somma di abilità investigative, situazioni psicologiche e condizioni politiche, economiche e ambientali, i magistrati si trovano davanti persone che presto o tardi finiscono per confessare». Cioè: confessavano perché erano in galera e volevano uscire. Confessavano perché non volevano finirci, bene che andasse. Erano quelle le «situazioni psicologiche»: le altre, «politiche, economiche e ambientali», fecero parte del contesto «irripetibile» che permise un uso spropositato delle manette. La prassi di Mani pulite, sin dall'inizio, aveva ipotizzato reati i più gravi possibili così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva: questo anche per violazioni di tipo amministrativo come il noto finanziamento illecito dei partiti. Per capirlo, in fondo, è sufficiente guardare quanti dei 1230 condannati di Mani pulite abbiano subito delle carcerazioni preventive a dispetto di pene poi risultate inferiori ai due anni, condanne ossia a cosiddette pene sospese, con la condizionale: quasi tutti. E' noto: effettive condanne al carcere, alla fine di Mani pulite, praticamente non ce ne sono state. Eppure la regola è sempre stata chiara: tizio, se è presumibile che sarà condannato a meno di due anni, in carcere preventivo, non ce lo dovresti mettere; certo, la regola implica una capacità «prognostica» - direbbe un tecnico - di prevedere a quanti anni Tizio sarà probabilmente condannato: tra i compiti del magistrato c'è anche il cercare di presumerlo. Diciamo che il Pool ha sempre presunto molto male. Di Pietro ne era maestro da sempre: sparare reati incredibili e sbattere dentro perché tanto, per derubricare un reato, c'era sempre tempo. Il clima manettaro che aveva permesso ogni cosa, dalla fine del 1994 e con le dimissioni di Di Pietro, scomparve. Dall'altra parte, bene o male, c'era una classe politica rinnovata e legittimata, non è che il Pool avrebbe potuto respingere a vita tutte le norme del Parlamento. Dall'estate 1994, oltretutto, molti indagati dell'inchiesta sulle Fiamme Gialle (e su Berlusconi) non avevano collaborato neppure se carcerati: perché erano militari, forse, o perché non vollero e basta. Capitò anche con la Fininvest: del resto collaborare, assecondare l'accusa, non è obbligatorio. Dirsi innocenti, o crederlo, o addirittura esserlo, è ancora possibile, è lecito: e non per questo si marcisce dentro, nei paesi civili. Nei paesi civili si va in galera dopo una condanna, non prima. E si attende il processo con la prospettiva di finirci, non di uscirne. Da qui la svolta spiegata dal pm Francesco Greco: «Dopo le dimissioni di Di Pietro cominciammo a lavorare prevalentemente su documenti e con altre tecniche, quali intercettazioni telefoniche ed ambientali, in precedenza trascurate in quanto non necessarie».  Non necessarie perché c'era il carcere. Ora, invece, potevano e dovevano ricominciare a lavorare come dei magistrati normali. Ma questi sono scampoli di verità, come detto. La verità tutta, per dirla male, anzi malissimo, è che troppa gente rimase insospettita dal mancato coinvolgimento dei vertici del Pci e viceversa dalla pervicacia con cui si puntava su Berlusconi. Ma detta un po' meglio, il vero problema non fu la serpeggiante impressione che Mani pulite fosse ormai agli sgoccioli: stanca, talvolta astratta, con tutti quei cronisti che ciondolavano per i corridoi facendosi domande sul proprio futuro. Altri colpi di scena, del resto, non sarebbero mancati. Il problema, come il Pool non comprese per forma mentis, fu che l'inesorabile fine di una stagione non potè non coincidere con l'indagine sulla Guardia di Finanza. Quegli imprenditori che cominciarono a confessare d'aver pagato anche i finanzieri, perché chiudessero un occhio, fu l'inizio di una voragine che in potenza non avrebbe mai avuto fine. Un reparto accusò l'altro, un reparto arrestò l'altro. Intere legioni di militari finirono in carcere e alcuni erano collaboratori del Pool: qualcuno arrestato, qualcuno suicidato. Quell'immagine di finanzieri che iniziavano ad arrestarsi tra di loro divenne la metafora di un Paese che si stava divorando. Onesti e disonesti, concussi e concussori, taglieggiatori e vittime: parole sempre più svuotate di significato, termini utili per delimitare, secondo fazione, le proprie simpatie e i propri interessi. Nel Paese in cui tutti pagavano tutti si scoprì che, poveretti, gli agenti della Guardia di Finanza incassavano mazzette perché avevano stipendi da fame, e trescavano con l'esercente che, poveretto, senza fatture false avrebbe chiuso bottega, e trescavano col grande stilista che, poveretto, senza fatture false la bottega non l'avrebbe neanche aperta. La famosa dazione ambientale, che da lontano e sui giornali pareva solo un'associazione per delinquere, era vicina, vicinissima: dal fiscalista, dal commercialista, dal certificatore di bilanci, dall'impiegato comunale e regionale e statale, dall'avvocato, dal notaio, in negozio, al bar, nelle famiglie, con la domestica, nel 740, nello scontrino che non ti hanno dato, ma che tu non hai preteso. La cosiddetta inchiesta «Fiamme sporche» contò centinaia e centinaia di indagati ma comincerà a trasfigurare lo spettacolo di Mani pulite agli occhi del suo pubblico, a confondere proscenio e platea, a disamorare progressivamente da un'ubriacatura legalitaria ormai triennale e che dapprima era parsa tuttavia così liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. Poi non più. Dirà anni dopo Francesco Saverio Borrelli: «L'atteggiamento dell'opinione pubblica cominciò a cambiare più o meno in coincidenza con l'indagine sulla Guardia di finanza... finché si trattò di colpire l'alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che stavano sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma, quando si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma che investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Dirà pure Piercamillo Davigo: «Le vicende che mi hanno più depresso sono le piccole vicende. Mi sono capitati processi dove centinaia di persone hanno pagato somme di qualche milione per non fare il servizio militare. Centinaia di persone... Eppure tutti i giovani venivano da buone famiglie che li finanziavano, perché a diciannove anni non si hanno dei milioni cash nel portafogli. Questo la dice molto lunga sulla diffusione di certi comportamenti e sulla valutazione che di essi viene data nel complesso della società». La ciliegina finale è a cura di Enzo Carra, ex portavoce democristiano (ora all'Udc) che proprio Davigo aveva fatto condannare: «Mani pulite fu un piccolo squarcio nei nostri vizi pubblici e privati; poteva essere una grande occasione per metterli sotto accusa, questi vizi, insieme ai corrotti e ai corruttori. E' stata una grande occasione mancata per cambiare le regole e i comportamenti nella nostra società... Con un'eccezionale prova dell'italianissima arte di arrangiarsi il cammino è ripreso come prima, o quasi... Invece di cambiare sistema si è cambiato discorso». Non c'è molto altro da aggiungere. di Filippo Facci

Dai blog