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Libro smaschera Veltroni Incoerente da sempre

Un'analisi sociologica sull'ex sindaco di Roma rivela: ha sempre saputo di essere un perdente, inadatto a fare il capo

Nicoletta Orlandi Posti
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Ma quale Berlusconi, il vero uomo politico virtuale, il trasformista mediatico più formidabile è stato Walter Veltroni. La sua leggenda, più modesta di quella berlusconiana ma non meno avventurosa, è esplorata da un giovane sociologo, Francesco Marchianò, nel libro «Walter Veltroni. Una biografia sociologica» (Ediesse, 230 pagg., 14 euro). Più che una biografia è un discorso alla memoria, almeno lì dove dice che «Dallo studio della sua biografia infatti è emersa una caratteristica di fondo della sua personalità cioè quella di sentirsi inadatto al ruolo di leader di partito. Questa premessa non è certamente di buon auspicio per chi vuole guidare un nuovo grande partito». Un po' come dire di un cardiochirurgo che è inadatto a tenere in mano il bisturi. Leggendo il saggio si comprende che la virtualità del veltronismo è direttamente proporzionale alla capacità dell'uomo Veltroni di far perdere le tracce su se stesso, di dissolversi come un personaggio del suo amato cinema. Il mito della frontiera, dell'«I Care», «A me importa», è possibile perché non sappiamo mai a chi importi. All'uomo che annuncia di voler andare in Africa e dare una svolta alla sua vita? A colui che ancora oggi si trascina in una anacronistica polemica con Vendola che gli dà del reazionario? Significative le epigrafi del libro, tratte da un'intervista alla Stampa e a Repubblica: «Si poteva stare nel PCI senza essere comunisti. Era possibile, è stato così», e l'altra: «Penso al partito nel quale sono cresciuto, alle persone da cui ho imparato a fare politica. Il PCI, per me che non ero ideologicamente comunista». Come si faceva a stare nel PCI, un partito dall'ortodossia ferrea, che sanzionava con durezza chi sgarrava dalla linea, senza essere comunisti,  e come si potesse crescere nei suoi ranghi, circondato da comunisti di varie gradazioni, da Cossutta a Napolitano, senza subire nemmeno un lieve contagio, è in fondo il segreto del veltronismo. Una forma sofisticatissima di mimesi camaleontica, per cui mentre si sosta su una parete rossa, assumendone la tinta, dentro di sé si cova una scandalosa ammirazione per gli occhi cerulei dei fratelli Kennedy. Usare la politica come un taxi per spostarsi nei propri sogni personali, salvo poi risvegliarsi dopo le politiche del 2008, sognare ancora un po' fino alle successive regionali del 2009 e, dimissionario dal partito da lui fondato (senza piangere troppo perché  si sa, non aveva la predisposizione alla leadership) accorgersi che si è al capolinea. Ci vorrebbe uno studio psicanalitico, che in parte Marchianò fa quando risale all'infanzia, con un primo capitolo che si sarebbe potuto intitolare i tormenti del cadetto Veltroni. Apprendiamo che  Walter amava giocare con le figurine dei calciatori facendone la radiocronaca, e ci spieghiamo l'intuizione del futuro direttore dell'Unità, di allegare la ristampa degli album della Panini al quotidiano fondato da Gramsci. Forse quello è stato il Veltroni autentico, colui che coniugò il grande Torino di Valentino Mazzola e i Grundrisse di Marx. di Giordano Tedoldi

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