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Pdl, Monti ed elezioni: Berlusconi pronto a tutto

Il Cav a Milano ha fatto capire che il partito è suo e che se servisse è pronto a sacrificarlo. Dal nome alle strategie, Silvio è tornato in cattedra

Giulio Bucchi
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Silvio Berlusconi è tornato col piccone. La questione dell'appellativo del partito, fosse solo nominale, lascerebbe tranquilli tutti. Il problema è che, in una formazione che oltre al contenitore fatica a mostrare un'articolazione politica efficace nel mese quarto dell'Era tecnica, la scatola è quasi tutto, e dunque l'oggetto delle picconate del Cavaliere non è una parola ma lo stesso partito, il suo leader, i suoi maggiorenti. Il giochetto mediatico dell'attacco - con smentita - di Alfano, fino alla plateale e scenica difesa di ieri («si mangia tutti») è servita in fondo a riportare in cattedra il Caimano dei bei tempi. Berlusconi ha detto chiaro e tondo che il Pdl è lui, e in questo momento il Pdl deve stare dov'è. Il congresso di Milano, non dubbio nel risultato, ha rivelato che l'«Addio Pdl» sparato da Libero qualche settimana fa, assieme al sospetto che il primo a disaffezionarsi alla sigla potesse essere proprio il Cavaliere, non era una fucilata a salve. Che l'acronimo «non commuova», infatti, è il meno. Berlusconi vuole mani libere, in uno scenario liquido dove ritiene di avere la possibilità di massimizzare il risultato sparigliando tutto. Tutto vuol dire anche sacrificare tanto il partito quanto Alfano, nel momento in cui si facessero avanti altri protagonisti o altre sigle capaci di intercettare la rivoluzione apertasi il 16 novembre scorso con l'avvento di Mario Monti a Palazzo Chigi: quando D'Alema malignava che «il delfino di un pescecane rischia grosso» aveva, come spesso accade, intuito qualcosa di corretto.  Dalla assoluta fluidità della situazione attuale, con i primi quattro partiti d'Italia privi di un candidato premier certo e stabile, la variabile dei tecnici pronti alla «calata» (Corrado Passera su tutti) e una legge elettorale che potrebbe contribuire a sbarellare ulteriormente la situazione, il Cavaliere punta a trarre il massimo. E i confini tra alleati, partiti, compagni e coalizioni si attenua di giorno in giorno. Fin qui, Berlusconi ha avuto il merito di trarre fuori dall'impaccio il suo partito dopo le fiducie votate in Aula a Monti cui facevano seguito immediate e imbarazzanti prese di distanza. La fase successiva non si è però ancora tradotta né in un appoggio convinto all'esecutivo (dopo le tasse non sono arrivate riforme «spendibili» per l'elettorato Pdl) né in una credibile opposizione (l'ipotesi di mollare Monti non ha spazio politico). Logorare il Pd sulle graticole di No Tav e articolo 18 mentre ci si propone per una stagione costituente non sembra per il momento costituire un vastissimo programma, ma è l'unico orizzonte disponibile, nella contemporanea gestione di un rapporto arroventato con la Lega, come hanno mostrato gli sberloni di ieri. Nel Pdl, per una questione di fidejussioni e di carisma, non ci sono forze in grado di opporsi al traccheggio, sornione e aggressivo, del Cavaliere, anche se questo dovesse confliggere con la sopravvivenza stessa del partito nel medio periodo. Ci sono due dati: il primo è che, nel fumo attuale, qualunque presenza solida e organizzata - anche nel Pdl - in grado di mettere in campo uomini e contenuti che ridiano senso alla famosa espressione «moderati» è in grado di emergere, preparandosi a ogni scenario possibile. Il secondo è che il Cav c'è, ed è pronto a tutto. di Martino Cervo

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