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Facci: nelle feste già si lavora ed è cosa buona e giusta

Lavorare alla domenica non è una offesa a Dio, anche perché per fortuna l'Italia non è una teocrazia. E quella di Monti non è un'imposizione

Giulio Bucchi
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Sono in imbarazzo. Quando mi è  stato detto l'argomento sul quale avrei potuto «opinare», sabato pomeriggio, ho pensato a uno scherzo o che si trattasse di un'esercitazione da pagine cultural-scientifiche. Sono in imbarazzo perché la nota, invece, era proprio questa: «Monti abolisce Dio. Con un comma del decreto Salva-Italia (art. 31: negozi e supermercati possono stare aperti 24 ore 7 giorni su 7, la Regione Lombardia ha  presentato ricorso) Monti spazza via 4.000 anni di civiltà giudaico-cristiana. La ripartizione dei 6 giorni + 1 risponde a una liturgia vecchia di millenni, calibrata sui ritmi biologici dell'uomo. E i cattolici alla Riccardi fan  finta di niente». Sono in imbarazzo anche perché ho appreso che avrei avuto come contraltare Antonio Socci, un cristiano fervente che su temi del genere è capace di scriverti spataffiate teologiche di 500 righe: ma che è soprattutto un amico, uno a cui voglio bene, insomma, uno che non ho nessuna voglia di insultare come penso meriti chiunque voglia impormi il suo modo di vivere e le sue visioni ideologiche e religiose. Anche perché non si tratterebbe, nel caso, della solita contrapposizione tra laico e cattolico, ma peggio,   tra laicista e cattolico integralista, come io e Socci sappiamo essere e come un argomento così scemo soprattutto costringerebbe a diventare.      Quindi demolisco subito le basi della discussione, se non dispiace. Primo: questa non è una teocrazia e non è neppure (più) una democrazia con una religione di Stato, ergo non accetto che dei religiosi possano accampare pretese che valgano per chi religioso non è; ciascuno viva come vuole e come può, per me la regola del settimo giorno vale come quella dell'astinenza della carne il venerdì, non m'interessa. Chi voglia vivere il cattolicesimo in un certo modo - ma quanti, ormai? - può coltivare la propria separatezza e magari anche delle patate, come fanno gli Amish. Secondo: figuratevi che io non accetto neppure la definizione di «civiltà giudaico-cristiana», e sono stato contento che le celeberrime «radici cattoliche dell'Europa» non comparissero nella Costituzione continentale: ergo delle «liturgie vecchie di millenni» non me ne frega niente, anche perché se ne potrebbero citare altre di vergognose. Terzo: ho cercato di informarmi un minimo e ho visto che gli unici a difendere la sacralità della domenica, oltre agli ecclesiastici, sono i sindacati: e certe misture di prediche millenaristiche e rivendicazioni salariali per me bastano e avanzano. Quarto punto: in realtà non capisco neppure bene il problema, perché a nessuno è precluso di impostare la propria vita e le proprie domeniche come ritiene; il tempo di andare a messa non mancherebbe di certo - le messe del sabato sera ci sono già da una vita  -  e niente di male se alcuni officiano le loro liturgie domenicali mentre io riesco a comprare il pane e il latte. Anche perché si tratta di una liberalizzazione dei giorni e orari di apertura, non di un'imposizione svincolata dal mercato o dalla volontà del singolo esercente: se ci saranno i negozi aperti la domenica, cioè, vuol dire che esiste la domanda - il bisogno - e se c'è la domanda si movimenta il mercato e potrebbero anche crearsi dei posti di lavoro. Esattamente come già accade nelle località turistiche e nelle città d'arte, dove l'offerta e cioè l'eccezione (presunta eccezione) sono regolate dalla domanda, non da una bolla papale. E ci avviciniamo al punto chiave, che secondo me è questo: l'apertura domenicale dei negozi, in pratica, c'è già. Non dico solo nel centro della mia Milano, dove è tutto sempre aperto, ma dico anche nel vecchio e glorioso quartiere Lambrate dove io vivo: non c'è stata domenica senza una qualche «apertura straordinaria» di supermercati, discount, centri commerciali eccetera, male che vada si faceva la spesa persino all'Ikea (robaccia svedese) o all'Autogrill della tangenziale, insomma ce la si cavava, e per bevande e dolci e surgelati si poteva addirittura ripiegare su Blockbuster (una catena di noleggio film, figurarsi) sino a sera inoltrata. Qualcuno obietterà che questo vale in una grande metropoli e non certo nella provincia senese, ma diciamolo meglio: vale dove c'è la domanda, vale dove serve, e questo nonostante le vischiosità opposte per decenni da preti e sindacati. Non serve? Non  lo fai. L'ho messa giù cruda, mi rendo conto. È che non voglio confondere le discussioni: aprire i negozi la domenica (per chi lo vuole) è cosa   diversa dal mettersi a discettare sul nostro modello di sviluppo e sul nostro destino di criceti nella ruota del consumismo e del lavorare e lavorare e sempre lavorare - chi può farlo. I buoi sono già scappati, inutile richiudere le stalle (e i negozi) quando le moltitudini calpestano beatamente   da un pezzo i nuovi e orribili centri di aggregazione, soprattutto domenicali: i centri commerciali. Satana è già qui, e fa pure i saldi. In Italia la Chiesa non rinuncia a battaglie ben più intransigenti e antimoderne di quelle che  è in grado di fare altrove,   anche grazie a una classe dirigente prona e debole come nessun'altra nel mondo: ma la battaglia è stra-persa, e la Chiesa anziché bandire i centri commerciali dovrebbe cercare di entrarci. Pagando l'Ici, s'intende. di Filippo Facci

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