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Questa è una guerra da pazzi Perché dobbiamo andar via

La missione Isaf è mal condotta e gli alleati in Afghanistan sono infedeli: non ha più senso per gli italiani restare a combattere i talebani

Giulio Bucchi
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La morte di un bersagliere nella base italiana Ice nel Gulistan, in Afghanistan impone al distratto governo italiano la necessità immediata di iniziare un consistente ritiro del nostro contingente. Lo affermiamo ora con forza, dopo che, per anni abbiamo invece difeso le ragioni della nostra presenza nella lotta contro i talebani che intendono rifare dell'Afghanistan il “santuario” del terrorismo islamico. Per anni, abbiamo sempre evidenziato lo stretto legame tra i Talebani e in network di terroristi islamici che seminano morte in Europa. La vicenda di Mohammed Merah, lo stragista di bimbi ebrei di Tolosa è una evidente conferma di questo legame. Siamo ancora convinti della necessità astratta di un nostro impegno militare a Kabul. Ma il rispetto dovuto al 50° nostro militare caduto e a tutti quelli che l'hanno preceduto ci impone oggi di dire, a gran voce: non in queste condizioni! Non è possibile che i nostri 3.985 militari in Afghanistan siano sottoposti ad uno stillicidio di perdite e a un tale tributo di sangue per una guerra condotta così male e con tanta confusione. Questo è  il punto: la gestione di Barack Obama del conflitto afghano è ormai oltre i limiti della confusione. Basti pensare che il 15 marzo i talebani hanno interrotto ogni trattativa con gli Usa per la pacificazione del paese (dopo una serie di errori americani madornali, inclusa l'uccisione di decine di civili, il falò del Corano e l'oltraggio di marines ai mujaheddin caduti) e che il giorno dopo Barack Obama, in una telefonata con Hamdi Karzai, ha comunque confermato il pieno ritiro Usa entro il 1914. Ma annunciare al nemico che comunque, a breve, ci si ritirerà, qualsiasi cosa accada, senza avere prima costruito un contesto equilibrato, una qualche prospettiva di pacificazione e men che meno una capacità dei militari afghani di continuare seriamente il contrasto ai talebani,  significa solo preparare una resa totale, anche se «a rate». Un quadro strategicamente disastroso che impone al governo di Roma, così come al Parlamento, una rapida riflessione e una altrettanto rapida decisione di ritiro. Sia chiaro, questo non metterebbe affatto in cattiva luce il nostro Paese di fronte agli alleati, perché l'Olanda, il cui contingente è sempre stato tra i più determinanti e combattivi della Nato, ha già ritirato i suoi uomini da Kabul; la Spagna ha già ritirato mezzo contingente e ora è presente con soli 500 uomini (un ottavo dell'Italia); la Gran Bretagna ne ha ritirati 500  e le stesse Germania e Francia lanciano sempre più chiari segnali di disimpegno. La morte del nostro bersagliere nel Gulistan non ci deve spingere verso un disimpegno «tecnico», rateale, alla chetichella. Ci impone invece una franca richiesta di chiarimento agli alleati; in primis agli Usa di Obama. Una richiesta da alleati, fedeli, generosi, ma non subordinati, non più disposti a scivolare nel pantano di un conflitto semplicemente “non gestito”, in cui gli errori tattici e strategici della guida della missione sono sempre più marchiani. Errori, peraltro, pesantemente condizionati non solo dalla generale mancanza di strategia che Obama dimostra in tutto il Medio Oriente, ma anche e fortemente da meschini calcoli di politica interna. È evidente infatti che il reiterato impegno della Casa Bianca al ritiro entro il 2014, nonostante sia chiaro che effettuato in queste condizioni sarà solo una resa, è largamente motivato dalla scadenza elettorale, dalla corsa di Obama alla riconferma. Un contesto tanto ambiguo, quanto non più tollerabile. di Carlo Panella

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