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Pansa: il tassista di Valpreda ultima vittima piazza Fontana

Riconobbe l'anarchico come persona che gli portò valigetta alla banca. Da allora la sua vita fu un inferno: morì 2 anni dopo

Matteo Legnani
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Nel mattatoio di piazza Fontana comparve all'improvviso un Signor Nessuno. Era Cornelio Rolandi, anni 47, nato a Porta Ticinese, quartiere popolare di Milano. Faceva il tassista e si trovò dentro una tragedia ben più grande di lui. Aveva portato vicino alla Banca nazionale dell'agricoltura un tizio con una valigetta poi depositata lì. Tormentato da quel ricordo, andò dai carabinieri. La sua testimonianza mise nei guai l'anarchico Pietro Valpreda. Ma fu l'inizio di una storia che a Rolandi avrebbe rubato la vita. Avevo raccontato di lui nelle mie cronache per la Stampa. E verso la fine del gennaio 1970, un mese e mezzo dopo la strage, cercai di incontrarlo. Sembrava un'impresa impossibile, mi riuscì per un caso. Il portinaio del mio palazzo era amico del custode di uno stabile vicino. Costui conosceva bene il portiere dell'enorme edificio nel quale abitava Rolandi, a Corsico, un comune dell'hinterland milanese. E lui mi portò dal tassista. Fu il Cornelio ad aprirmi la porta, con una cautela piena di paura. Era un uomo alto, magro, in pigiama e ciabatte, il volto terreo, la fronte coperta di sudore. Pensavo che mi avrebbe respinto e invece quasi mi abbracciò: "Venga, dottore. Ho bisogno di parlare, di confidarmi. Lo vede come è ridotto il Cornelio Rolandi? Non vive più, non dorme più, non mangia più!". Parlava di se stesso come di un'altra persona. Diede un'occhiata ansiosa dalla finestra, osservando i banchi di nebbia che assalivano il villaggio «Giorgello» di Corsico. Nell'alloggio al dodicesimo piano c'era soltanto lui. La moglie e il figlio stavano al lavoro. E il Cornelio era rimasto alle prese con un ricordo: "Ho sempre in mente il fatto! Anche mentre guido il tassì, il cervello macina quella cosa lì. E ogni volta sento una fitta allo stomaco: è l'ulcera che si fa viva". "Quella cosa" era accaduta quarantadue pomeriggi prima, in un altro venerdì, il 12 dicembre 1969. Sul suo taxi Rolandi se ne stava al posteggio di piazza Beccaria, nel centro di Milano. Dalla vicina piazza Fontana veniva il brusio del mercato dei sensali davanti alla Banca dell'agricoltura. Fu in quel momento che il destino condusse il Cornelio all'incontro che gli avrebbe rovinato la vita.  Mi raccontò: «Guardavo verso l'Hotel Ambasciatori e così vidi un tizio appena uscito dalla Galleria del Corso. Aveva una valigetta nera, portava un cappotto scuro, con il bavero alzato. S'infilò rapido nel mio taxi e nell'entrare posò la piccola valigia. E allora con gli occhi lo fotografai. Pam!, faccia a faccia, venti centimetri di distanza».  In quel momento era la faccia normale di un cliente normale. Un tipo di poche parole e con le idee chiare sulle proprie mosse. Disse al Cornelio: "Mi porti in via Albricci, passando per via Santa Tecla". Rolandi mi raccontò: "Avrò fatto sì e no venti metri su questa strada, quando mi ordinò di accostarmi al marciapiede: Aspetti  un attimo, torno subito. E nel scendere diede una gran botta per chiudere la portiera. Pensai: brutto fesso, ma chi ti credi di essere? Me lo guardai bene un'altra volta. Anche se il mio taxi era vecchio, per me quella botta era un colpo al cuore. Dopo quattro o cinque minuti, il tizio ritornò. Sembrava avere molta fretta. Ripartimmo e alla fine lo scaricai all'angolo di via Albricci. Soltanto in quel momento mi accorsi che non aveva più con sé la valigetta o la borsa». Rolandi cominciò a pensare alla borsa il sabato sera, 13 dicembre. Ormai sapeva della strage alla Banca dell'Agricoltura e dei sedici morti. Per di più aveva visto sul Corriere della sera la foto della valigetta trovata nell'altra banca, la Commerciale, quella con la bomba non esplosa. Disse a se stesso: "Santa Madonna, Cornelio: sta tent che l'è quel là, il tizio che hai portato sul taxi!".  Da quel momento non ebbe requie: "Vedevo alla tivù la valigetta lasciata alla Commerciale. E il cervello lavorava, lavorava. La mia miè la me diseva: Cornelio, lascia perdere, che magari non l'ha messa l'uomo che hai portato nel tassì! Ma io niente: vedevo i morti nella banca e la faccia di quel tizio. La notte fra la domenica 14 e il lunedì 15 dicembre mi sentivo un leone in gabbia. Quasi mi strappavo i capelli. Alle quattro e mezza scoppiai a piangere così forte che svegliai moglie e figlio. Poi mi decisi". Domandai a Rolandi: "Mi racconti che cosa ha fatto". Lui riprese a piangere: "La mattina del lunedì andai di volata alla stazione dei carabinieri di via Valpetrosa. Cascai addosso al primo maresciallo che trovai e gli dissi: devo riferire sull'attentato. Lui esclamò: santo Dio!, e si mise scrivere. Da Valpetrosa mi portarono al Nucleo investigativo dei caramba, in via Moscova".    Lì cominciò il finimondo: "Mi sentì un capitano. Poi un colonnello. Quindi mi portarono in piazza Fontana con il taxi, per un sopraluogo. Di nuovo alla Moscova per disegnare un identi-kit. Poi ancora a sfogliare centinaia di foto, senza trovare quella giusta. Infine a casa, per mangiare un boccone. Ma alle sette di sera mi vennero a prendere, stavolta era la questura di via Fatebenefratelli". Chiesi al Cornelio: "Il questore Guida la ricevette subito?". Rolandi scosse la testa: "Macchè. Tre ore di anticamera, senza vedere un'anima. Finalmente mi portarono dal questore. Lui teneva in mano un foglio piegato a metà, dentro c'era la fotografia di un tizio. Il questore me la mostrò, dicendo: ci pensi bene, Rolandi, è lui il cliente che ha trasportato sul taxi? Risposi: sì, forse è lui. Nella foto era smagrito, con le guance incavate, ma era il mio cliente del venerdì della strage. Chiesi: come si chiama? Mi risposero: Pietro Valpreda". In seguito, sulle modalità del riconoscimento esplosero mille polemiche. "Lo so bene", borbottò Rolandi. "Ma quella sera in questura sembravano impazziti per la soddisfazione. Il dottor Guida mi diede un buffetto sulla guancia: bravo Rolandi!, hai finito di fare il tassista, ti sei sistemato!".  Il Cornelio riprese a piangere: "Pensavo che parlasse della taglia da pagare a chi trovava l'uomo della bomba. Ma il mattino dopo mi vennero a prendere e con un aereo mi trasferirono a Roma. Al Palazzo di giustizia mi misero a confronto con il Valpreda. Era il mio cliente. Dissi: sì, è lui, mi pare proprio lui! Il Valpreda diede fuori di matto, cominciò a gridare, dovettero portarlo via di peso. Allora, sempre con l'aereo, ritornai a casa".  Da quel momento, Rolandi non appartenne più a se stesso. Gli piovvero addosso insulti e accuse a non finire. È un casciaball, un bugiardo, un megalomane, un confidente della polizia, un fascista del Movimento sociale. Era questa l'etichetta che gli bruciava di più: "Sono un comunista iscritto al Pci. Ecco la mia tessera: numero 0099593, sezione Garanzini di via Lagrange. L'ho già rinnovata per il 1970. Ma adesso sono un uomo distrutto", borbottò tra le lacrime. Aveva il sistema nervoso a pezzi, il gusto della bile in bocca, soffriva di colite. Nelle tre ore del nostro colloquio si sentì male due volte. Lo accompagnai in bagno e mi vomitò addosso. Spiegò: "Un mese fa pesavo 81 chili, oggi sono 74".  Prima che me ne andassi, mi abbracciò piangendo. Disse: "Mi scuso per il vestito, se vuole glie lo ripago". Non lo rividi più. Seppi che aveva smesso di fare il tassista e gestiva un chiosco di bibite al parco giochi di Corsico. Non incassò mai il premio di 50 milioni di lire. L'ulcera stava bucandogli lo stomaco. Poi arrivò la broncopolmonite. Il fisico debilitato non resse e il Cornelio morì il 16 luglio 1971, a 49 anni. L'ultima vittima della bomba di piazza Fontana. di Giampaolo Pansa  

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