Stefano Zecchi e il Leoncavallo: "Per loro la vera rivoluzione era pagare l'affitto"

di Andrea Muzzolondomenica 24 agosto 2025
Stefano Zecchi e il Leoncavallo: "Per loro la vera rivoluzione era pagare l'affitto"

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Compagni, a raccolta! Dopo lo sgombero del Leoncavallo è partito il processo di santificazione del centro sociale, elevato a punto di riferimento del mondo culturale milanese. Una sorta di mix tra la Pinacoteca di Brera e la Scala di Milano. Peccato che oggi, del famoso Leonka delle origini, sia rimasto ben poco: «È una realtà che viene mantenuta in vita con una sorta di accanimento terapeutico, il cui unico legame con l’antagonismo culturale del passato risiede nell’abusivismo». A raccontare la triste fine del centro sociale è Stefano Zecchi, filosofo, scrittore, accademico e anche assessore del capoluogo lombardo che, nel corso della sua carriera, ha avuto modo di osservare da vicino la parabola del Leonka.

Professor Zecchi, da sinistra è ripartito il ritornello sulla funzione culturale del Leoncavallo. Ma quella che si faceva lì dentro può essere davvero definita “cultura”? 
«La vera attività culturale del Leoncavallo è quella delle origini. Dal ’75 all’80 c’era un’identità chiara: la sede era vicino a Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, il centro sociale era radicato sul territorio e intratteneva relazioni con il mondo operaio. Anche i militanti avevano un ruolo attivo nel quartiere: ricordiamo, per esempio, che è stata la lotta all’eroina a portare Fausto e Iaio alla morte, essendo i due ragazzi impegnati a riportare su binari accettabili altri coetanei in difficoltà. In quegli anni è innegabile che il Leonka abbia avuto una sua funzione, anche culturale. Ma è andata perdendosi già negli anni ’80 quando gli occupanti della prima ora si dispersero, venne meno il legame con il quartiere e cominciarono le inchieste sulla collusione di alcuni soggetti con movimenti armati».
Oggi cos’è rimasto del Leoncavallo? 
«È rimasto un simulacro, anche un po’ malinconico. Adesso organizzavano delle iniziative come incontri musicali e teatrali. Attività, tutto sommato, senza grande valenza culturale. Allora poteva essere l’immagine di una visione politica alternativa a una realtà sociale democratica, ma di tutto ciò oggi non c’è più nulla».
Cosa pensa della levata di scudi di cantanti e attori in difesa del centro sociale? 
«Dovrebbero informarsi meglio su cos’è e cos’era il Leoncavallo; poi parlare a ragion veduta. Mi danno l’idea di figure chiamate a raccolta giusto per fare opposizione al governo. Il problema è che le sinistre si sono incarognite perché non hanno punti d’appoggio per sviluppare una critica politico-sociale».
È stato sollevato il tema del “Dauntaun”, l’area sotterranea dello stabile di via Watteau colma di graffiti, che ha ricevuto la tutela della Soprintendenza. Quale sarà il suo destino secondo lei? 
«Non trovo in quei graffiti questa straordinaria importanza culturale. Detto ciò, decida la Soprintendenza che fare. Io tengo solo a rilevare che la street art non ha un segno di eternità; nasce e muore all’interno dello sviluppo urbano».
Lei è stato assessore alla Cultura a Milano. C’è un ricordo di quel periodo che, visti i fatti di questi giorni, le è tornato alla mente? 
«All’epoca decisi di aprire la “Casa della poesia”, dandola in gestione a poeti importanti. Si trattava di un centro culturale vero e proprio, creato anche grazie al sostegno dell’amministrazione milanese. Ma nel tempo il Comune ha smesso di sostenere iniziative del genere. Ecco, quindi, che la vicenda Leoncavallo diventa eclatante, la più grande storia di degrado culturale milanese degli ultimi decenni. Per fortuna la città ha una sua grande forza culturale, indipendente dall’amministrazione, che si manifesta nelle case editrici, nei giornali, nelle università e che non si arresta nonostante le mancanze del Comune».
Chi difende il Leonka sembra dimenticare che la sua sede era occupata da oltre 30 anni e, fino a prova contraria, in Italia l’occupazione abusiva è un reato. Secondo lei com’è possibile che avvenga questa normalizzazione? 
«L’origine del Leoncavallo era fortemente trasgressiva visto che è nato in un momento storico in cui occupare era un gesto politico forte, di concretezza della lotta operaia portata avanti da parte della sinistra. Quest’idea evidentemente rimane viva in alcune persone, ma è ormai grottesca. Trovo davvero patetico chi, al giorno d’oggi, difende l’occupazione di uno spazio come gesto rivoluzionario. Sono figure anacronistiche».
Il governo quindi ha fatto bene a sgomberare il palazzo? Bisognava arrivarci prima o poi? 
«Assolutamente, e anzi. Penso che sarebbe stato un bel gesto da parte degli occupanti comprendere la realtà politica del momento - che non è più quella di 50 anni fa - e pagare l’affitto di fronte a una Milano in mano ai palazzinari. Questo sarebbe stato un gesto davvero rivoluzionario vista l’espulsione di parte della città per colpa dell’amministrazione».
Il Comune ha già detto di essere intenzionato a trovare una nuova casa al Leoncavallo. Come valuta questa scelta? 
«Il problema non è dare una casa a loro, ma mettere a bando delle sedi che possano ospitare le tante associazioni del territorio. Vengano fatti dei concorsi chiari e senza scorciatoie per nessuno».