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Planet Funk, 20 anni dopo: "House, rock, pancia e cuore, per prenderci l'Italia siamo scappati a Londra"

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Leonardo Filomeno
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Who Said, Inside All The People, The Switch, Chase The Sun. E ancora Stop Me, Lemonade, l'ondeggiante cover These Boots Are Made For Walkin', la 'partecipativa' We-People, l'evocativa e più recente All On Me. Ecco i Planet Funk, ultimi reduci di quel magico laboratorio sonoro che è stato a lungo il mainstream 'alternativo' italiano. Vent'anni di successi, riconoscimenti, variazioni. Pure qualche cazzotto di un vita spesso inutilmente stronza. Soprattutto, un livello di potenza creativa che in tanta musica elettronica oggi manca. Con il musicista Marco Baroni, tra i fondatori del collettivo, ripercorriamo i giorni che hanno dato il via al loro percorso, celebrato nei club italiani con una formazione che comprende lo stesso Baroni, il dj producer Alex Neri e Dan Black, ritrovata voce dei primi anni.

Partiti con un super singolo house, virate subito su un mix di 'indie-rock e dance' che ancora oggi vi contraddistingue. 
"Era nei piani sin dall'inizio. La musica del primo album, Non Zero Sumness, esisteva già nei mesi in cui il singolo di partenza 'Chase The Sun' iniziò a riscuotere interesse ovunque, grazie all'immediato supporto di top dj come Pete Tong, Deep Dish o DJ Harvey. Forti del successo che ebbe poi nel 2000 e dell'ingresso in Top 5 in Inghilterra, ci presentammo alle case discografiche italiane. L'accoglienza fu fredda. Ci respinsero. La paura di doversi interfacciare con l'estero emerse con forza".
Provincialismi che ci hanno resi col tempo irrilevanti.  
"Letteralmente, ci dissero: 'Se siete così convinti, andate in Inghilterra'. Infatti, qualche settimana dopo, a Londra, ci fu un incontro con tutte le major. Volevano capire chi fossimo, quali fossero le nostre idee. La firma per il mondo fu con Virgin UK".
Come arrivaste a tale scelta? 
"Ci trasmisero maggiore sicurezza, e ci diedero libertà massima. Le case discografiche italiane firmarono Non Zero Sumness molti mesi dopo, costò loro anche qualcosa in più (sorride, ndr). Ebbero la possibilità di partire per primi, ma arrivarono ultimi, facendosi fregare".
Who Said non lo volevano far uscire. 
"Come singolo, ci inventammo e forzammo l'uscita noi. Dopo Chase The Sun, Inside all the people e The Switch, con un disco d'oro in mano, facemmo presente all'etichetta che aveva licenziato l'album da noi che c'era un altro pezzo forte, Who Said appunto. Ci demotivarono. Per loro l'album Non Zero Sumness finiva lì, quei risultati li reputavano sufficienti. Non volevano darci nemmeno un budget per il videoclip. Decidemmo di realizzarlo lo stesso, a spese nostre, al Tenax di Firenze, tra una prova e l'altra del tour. Fortunatamente, a girarlo, fu un certo Luca Guadagnino (sorride, ndr)".
Decisamente fuori dal tempo, resta un brano illuminato. 
"C'era la voglia di Alex Neri di dare una impronta quasi punk. La percezione di una apertura verso un pezzo del genere all'epoca era forte. Dan Black registrò la voce a casa sua. Una figata, nonostante l'avesse ottenuta con mezzi di fortuna. Nella sua sporcizia, suonava, era aggressiva. Rifatta in studio, con strumenti professionali, quella magia svaniva. Tenemmo la versione 'casalinga'".
Non zero sumness cosa vuol dire? 
"E' una teoria secondo la quale la somma delle parti in questione è molto di più di quella aritmetica. Nel nostro caso era evidente che le singole personalità, ben intersecate, producevano un risultato superiore alle nostre aspettative. Piccole scintille luminose, tra loro unite, ci hanno permesso, in questi 20 anni, di tirare fuori qualcosa di identitario, che superasse ogni volta i limiti di ogni singolo componente del gruppo".
Quel disco suona ancora nuovo, definirlo visionario non è un azzardo.  
"Sono d'accordo. Nelle fasi di gestazione scherzavamo sul fatto delle 'visioni' che ognuno di noi raccontava di avere rispetto alla reazione del pubblico ad un brano specifico. D'altronde, per fare della musica che resti nel tempo, un po' visionari bisogna esserlo. E' difficile perseguire le visioni fino in fondo, ma da esse serve lasciarsi trasportare, soprattutto quando sono sincere".
“Le cose interessanti, innovative e rivoluzionarie, le faranno i ricchi” è la giusta previsione di Enrico Ruggeri. 
"Ormai ti incanalano, devi essere 'catalogabile' e scegliere la tua nicchia immediatamente. La musica da sola non basta più, ogni 6 mesi cambia. E un prodotto musicalmente valido non è più detto che trovi una struttura disposta a spingerlo. Se dai retta ai discografici, d'estate devi fare il reggaeton, d'inverno la trap. Che poi diventano vecchi e devi adattarti a qualcos'altro. Devi badare a troppe cose che non sono 'musica'. Dan Black, all'epoca, ci piacque e basta, non andammo a vedere quanti like avesse".
Di quella musica vissuta 'fisicamente' è rimasto un segno tangibile, che l'ondata del revival e del vinile sembrano un minimo rivitalizzare.  
"La fisicità del prodotto e la corsa all'acquisto erano un incentivo a spostare più in alto l'asticella della contaminazione. C'erano una industria e un pubblico che attendevano costantemente l'arrivo di un prodotto forte, questo era chiaramente percepibile. E ti dava la forza per fare cose importanti. Io continuo a vivere la musica come 30 anni fa. La faccio e me ne frego se sia o no su Spotify. Suono provando lo stesso piacere davanti a 100 come a 10.000 persone. La differenza la fa il contenuto. E' una parola che va di moda, adesso. Dunque, in teoria, dovrebbe essere la musica a fare ancora al differenza".
Più alto suonano i dischi, più le idee sono banali. 
"Alla lunga un certo tipo di suono si è rivelato stancante. Nell'analogico c'è un limite che puoi sforare, e quando lo fai arrotondi e saturi un suono, fino a farlo diventare distorto, ma in modo organico. Le vecchie batterie analogiche restano più musicali di quelle digitali moderne. Se registri una traccia con esse, i colpi non sono precisi. Quel suono fluttuante risponde ad una logica non so quanto voluta o casuale, senz'altro figlia delle tecnologia dell'epoca. Però, rispetto a quello odierno, è un suono trascinante e vivo. E' quel margine di errore che nasce dall'irregolarità, da come si amalgamano i suoni assieme. Ottenere lo stesso effetto col digitale non credo sia per tutti così semplice (sorride, ndr)".
E questa house così 'passatista'? 
"E' diventata un genere riconosciuto, anche se troppo ricco di sfumature, sottogeneri. Faccio parte di un gruppo che ha inventato la musica house, o comunque l'ha amplificata dai primi battiti (vedi progetti cult della italo house quali Korda, Kamasutra e tanti singoli di Alex Neri, alcuni firmati come Alex Lee, ndr) . La house ha sempre visto assieme dj e musicista, sintetizzatori e tanta libertà. L'attenzione estrema dei dj producer di oggi la trovo ridicola. Mi pare siano diventati più scienziati e scienziatini loro di quanto non lo siano quelli che fanno musica più impegnata. Hanno reso tutto troppo cerebrale. Uno schema mentale predefinito toglie tanto al divertimento. Per questo tanti locali muoiono. Credo sia poi saltato un pubblico trasversale e misto, un tempo accomunato dall'euforia e dalla pura voglia di divertirsi. Ricordo locali storici come La Cicala, in Versilia, dove, da musicista, andavo a sentire house music vera, con un pubblico house vero, affamato di cose nuove".
Attualmente vi esibite in 3, molto spesso nei club. 
"E' un assetto che potremmo proporre ovunque. Resta il desiderio di rifare concerti come una band, al completo, con gli altri membri del gruppo e tutti i cantanti che abbiamo coinvolto. Ci sono nuovi singoli e featuring con giovani artisti italiani. Dell'album nuovo non ho date certe, aspettiamo che si presenti uno scenario 'discografico' più stimolante (sorride, ndr)".
Quali riflessioni dopo la morte di Sergio Della Monica? 
"Con lui, un pezzo importante del gruppo l'abbiamo perso per sempre. Questo ci porta spesso ad interrogarci se sia il caso di andare avanti o di fermarci. Le ultime produzioni fatte assieme le abbiamo pubblicate, era un atto dovuto. Anche di Non Zero Sumness esistono inediti realizzati con lui che vorremo far uscire. Negli ultimi anni, per via della malattia, era meno presente, ma ci seguiva lo stesso, a modo suo. Al netto di tanti confronti che diventavano spesso litigi, lo ricorderemo sempre come una persona accogliente, che portava avanti i progetti con una logica ed un rispetto senza pari. E' un aspetto del gruppo che oggi ci manca tantissimo. E che mai in nessun modo rimpiazzeremo".

 

 

 

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