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Repubblica e quelle previsioni apocalittiche: la cultura fa male a Scalfari & co.

Giulio Bucchi
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Troppo successo fa male ai musei. Soprattutto se è rappresentato dai cafonazzi che si accalcano, sudaticci, nelle code immense del Louvre per vedere la Gioconda (mentre ignorano i Leonardo della sala accanto...). L'inferno di Bosch e di Foster Wallace insieme, praticamente: una massa di povericristi annegati tra gli afrori, i commenti sguaiati, le immagini terribili dei selfie che «non archiviano il ricordo, sostituiscono lo sguardo». E' questo, in sostanza, il nobile pensiero sul futuro dei musei che Salvatore Settis, archeologo e intellettuale affida alla prima pagina di Repubblica. Un impeto snobistico avviluppante, di cui ho capito poco, ma cerco di sintetizzare. Le tesi di Settis, sono di un insidioso colbertismo culturale. Primo punto: la tecnologia è una volgare approssimazione dell'arte. Settis, questo, l'afferma da una vita: per lui si dovrebbero vietare ai turisti perfino le macchine fotografiche, strumenti ineleganti che rubano l'anima dell'opera, da surrogare eventualmente con schizzi su notes riferiti all'opera d'arte stessa. Una volta il Principe Carloschizzò un paesaggio toscano in presenza di Settis (sussurra spesso Settis). Secondo punto: il patrimonio museale dev'essere vissuto in un silenzio consapevole, adatto ai pochi che hanno gli strumenti adatti. Settis, nelle interviste, confessa spesso di osservare un quadro col metodo del Reverse engineering, cioè smontandolo mentalmente, per capire come l'artista abbia fatto. Chi non conosce il Reverse engineering? Una pratica semplicissima quasi banale, per chiunque abbia anche meno di tre lauree. Terza convinzione di Settis: l'arte non ha nulla a che vedere col business, «circola nei palazzi del potere la stolta ipotesi che un manager vale per principio più di uno storico dell'arte...», scrive, affermando che «il patrimonio non è dei turisti ma dei cittadini». Quindi i «turisti» -che sono cittadini in movimento- sarebbero dei parìa, un'innaturale escrescenza della condivisione culturale. Settis, poi, cita la sovranità della tutela del patrimonio artistico, la Costituzione italiana, l'orrendezza del turismo mordi -e-fuggi; ed evoca il filosofo Baudrillard e la sua teoria della «società simulacro». Per essere precisi, cita, di Baudrillard «la verità è il simulacro, e nasconde che non c'è alcuna verità»: che non vuol dire nulla in riferimento ai turisti armati di smartphone, ma è una roba coltissima. Aperta parentesi. Verrebbe voglia di ricordargli che Baudrillard - come Jean-François Lyotard e Michel Foucault- era un nichilista per partito preso proveniente dalla generazione della crisi del '29 e della guerra; aveva adattato la critica nietzscheana alla società del consumo e dei mass media. Un'operazione di «critica delle critica» contro tutto e tutti che venne rinnegata dallo stesso Baudrillad nel 2002, nel Requiem per le Twin towers, 2002, quindi passata; a questo punto, caro Settis, se doveva proprio parlare della volgarizzazione dell'arte, be', era meglio citare La civilización del espectáculo di Mario Vargas Llosa che però essendo molto di destra è incitabile. Aggiungo che le suddette citazioni filosofiche col discorso dei musei, non c'entrano davvero un piffero; ma qualche condimento culturale sparso qua e là fa sulla prima pagina di un quotidiano nazionale fa sempre figo (cito io ora, figuramoci se non lo può citare il professor Settis). Chiusa parentesi. Detto ciò Settis, mostra un munifico seppur legittimo disprezzo per le masse. Le quali masse, però, facendo la coda, comprendo i biglietti on line e emmettendo gridolini compiaciuti dinnazi a dipinti e statue discinte, perlomeno si sforzano di entrare in un museo e di provare a respirarvi l'aria. Il loro approccio talora potrà pure essere volgare e pop, ma vivaddio che c'è. Settis è uno convinto, da sempre, che la tutela e la conservazione dei beni culturali non riguardi i fruitori, gli individui; ma spetti alla legislazione, allo Stato, al custodi della ricchezza comune. In una parola, come direbbe Renzi: ai sovrintendenti. C'è un piccolo ma esaustivissimo saggio sull'argomento, Salvatore Settis. La bellezza ingabbiata dallo Stato di Luca Nannipieri. Per Settis da un lato svettano gli eletti che preservano il Bene comune; dall'altra i barbari - gli imprenditori, i politicanti, i finti mecenati- che quel Bene vogliono corrompere. Bianco e nero. Ora, è vero che alcuni esempi della gestione culturale dei manager non sono stati memorabili; vedi il caso di Mario Resca, il Mazarino di Sandro Bondi incongruo ministro della Cultura, prima dell'incongruissimo Giancarlo Galan. Ma è anche vero che, per esempio, il Mart di Rovereto sotto la tutela del managerissimo Franco Bernabè ha vinto la crisi, aumentato i visitatori, messo a posto i bilanci e fatto esaltare la critica tra una mostra su Antonello da Messina e una curata dal filosofo postmedernista Jean Luc Nancy. L'esempio del Mart è emblematico perché in dieci anni, ha evitato commissariamenti, spoil system e soprattutto nomine politiche da Roma. Nomine e poltrone. Le stesse, per dire, distribuite dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali, dai quali, mi pare, provenga il Settis stesso. Per il resto, la fruizione dell'arte è assolutamente personale. Fatevi un selfie davanti a un libro di Settis... di Francesco Specchia

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