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Vittorio Feltri: il Sessantotto, festival dei mediocri

Andrea Tempestini
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C'è un volumetto prezioso in libreria. L'ha scritto Alessandro Gnocchi, s'intitola Giuseppe Berto, Antonio Delfini. Scrittori controcorrente, (Giubilei Regnani, pagine 133, € 15). Gnocchi, che è un filologo di rango, si sofferma nel suo godibile saggio, assai rivelatore dei tabù tuttora vigenti, non tanto sulla qualità e potenza letteraria dei due autori, ma sulla congiura del silenzio e dell'emarginazione che ha riguardato le loro persone fisiche, e tanto più il loro giudizio sul proprio tempo, sulla politica e la storia. L'esilio continua, ed è perfettamente comprensibile, dati i tabù e le code di paglia resistenti nel territorio delle lettere e della filosofia marxista o post-marxista. Di Delfini (1907-1963), modenese, non so che dire, mai sentito nominare, e questo è un segno certo della mia ignoranza, ma anche dello sbarramento riuscito, da parte degli addetti ai lavori, per non fare arrivare a chi è fuori dal giro anche un solo rigagnolo di acque non depurate da costoro. Ho bevuto come oro colato l'elogio appassionato che tesse Gnocchi dei racconti di Il ricordo della Basca, e mi incuriosisce il Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia, che si capisce non assicurò al narratore veneto la stima di nessuno dei due schieramenti. Di certo non fu mai antifascista, però. La sua penna fu un'ascia polemica contro politici famosi e ignoti: fascisti di ieri, liberali, democristiani, socialisti e comunisti a lui contemporanei. La maledizione si protrae fino a noi ed assume un'attualità che spiega perché sia ancora oggi sepolto. Un esempio in quattro versi. Sega gli alberi signor podestà/ signor sindaco signor baccalà/ L'eterno inferno è il governo/ in Italia per sempre è l'inverno. Il libro di Gnocchi è stato per me soprattutto un invito fulminante a riprendere tra le mani e a scivolare nottetempo tra pagine inquietanti e meravigliose di Giuseppe Berto. Non sono originale nel dire che Berto è stato uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento, anzi - secondo me - il migliore. Il male oscuro, vergato dopo la morte del padre, è una banalità definirlo psicoanalitico: non ci sta nelle caselle, è un capolavoro assoluto, per profondità, prosa, durata interiore nella coscienza di chi vi si immerge e non può che farsene catturare. Si deposita lì, nel crepuscolo della mente, mai completamente addormentato, una compagnia come di un fratello la cui conversazione è dolorosa ma necessaria. Nella mia personale graduatoria, Berto supera Italo Svevo, il quale con la Coscienza di Zeno gli sta non dico una spanna sotto, ma qualche pollice sì. Una lotta tra fuoriclasse. Sono entrambi anomali, troppo veri per essere usati in contese politiche. Perciò trascurati, anche nelle antologie scolastiche, dove - attesta Gnocchi - di Berto non si parla proprio. Vige un divieto forse razziale, nonostante lo scrittore abbia goduto dell'ammirazione di Carlo Emilio Gadda e, traslocando sul versante del giornalismo, di Indro Montanelli. Mica è poco come testimoni di grandezza. Le tracce del suo genio sono presenti in ogni suo libro peraltro. Il cielo è rosso, un titolo biblico voluto da Leo Longanesi, fu composto nel campo per prigionieri di guerra a Hereford, in Texas. Un successo di vendite, ma anche buona accoglienza del circuito della critica, che lo considerò un romanzo neo-realista, trattandolo perciò come un prodotto di famiglia. Poi si scoprì che il promettentissimo autore era nel lager americano in reparto punitivo: non voleva collaborare tradendo il proprio giuramento. Destino segnato, niente da fare, irrecuperabile: Berto, così in vita (1914-1978) come in morte, è stato perciò catalogato come filo-fascista, dunque «di second'ordine» (Pier Paolo Pasolini scripsit) dall'intellighenzia acquartierata come i Vopos sulle torrette della cultura italica, decidendo chi entra e chi deve starne fuori. Figuriamoci se davano il biglietto d'ingresso a uno che si dichiarava afascista, oppure non-fascista, ritenendo il fascismo stupido, ma l'antifascismo peggiore, essendo più violente e più menzognere le camicie rosse delle camicie nere. Leggi anche: Vittorio Feltri: chi sono i veri razzisti Escluso e perseguitato prima, silenziato a tutt'oggi. Non dai lettori però. I libri venduti con il nome di Berto in copertina sono stati più di un milione; Il male oscuro da solo è stato acquistato 350mila volte. Negli anni '70, a riprova dell'ottusità della critica, La Stampa si diede da fare con un questionario per scoprire quale fosse tra gli italiani il romanzo più importante e amato del Novecento. Prima furono consultati gli esperti di chiara fama, col parere dei quali si compilò un questionario con dieci titoli tra cui scegliere. Naturalmente non c'era alcuna opera di Giuseppe Berto, e non ce n'era neppure una di Oriana Fallaci. Bontà loro, lasciarono però uno spazio per la libera indicazione degli interrogati. Ebbene, Berto risultò terzo nella graduatoria dell'«importanza», con Il male oscuro e decimo con Il cielo è rosso. Invece vinse l'alloro del più amato, tra i testi non segnalati da Lorsignori. Gnocchi, come detto, si dedica alle opere politiche e polemiche di Berto e alla reazione da essi suscitata. Soprattutto ritaglia e consegna alla nostra lettura brani di Modesta proposta per prevenire, pubblicato nel 1971, con gli articoli scritti per la terza pagina del Resto del Carlino. È interessante perché è il caso più unico più che raro di un intellettuale che non si lascia trascinare dall'onda del '68, senza trasformarsi in reazionario o nostalgico. In questi testi egli riferisce i suoi dialoghi con un cane, ovviamente dotato di parola. La cosa non mi stupisce affatto, anche se io capisco meglio il linguaggio dei gatti. Egli ama questo Cocai, un cocker spaniel, che gli fa compagnia su un promontorio isolato. Lui recita la parte del padre più che del padrone. Il cane allevia la solitudine dell'uomo, ma è un cane sessantottino, rivoluzionario nelle idee e - ritengo - nel pelo. Ne nascono dibattiti vivaci, ma anche teneri e paterni. Gnocchi spiega che Berto rivolgendosi all'amico cocker in realtà vuol parlare alla figlia adolescente, Antonia, quattordicenne e ribelle. Il padre ammette: «Ci stiamo tutti dibattendo tra due fallimenti: il fallimento dell'ideologia cristiano-liberale-capitalistica e il fallimento dell'ideologia marxista». Continua: i giovani vorrebbero distruggere tutto per ricominciare. Illusione. Conviene «rimettere in sesto il sistema che abbiamo». Come fare? Si tratta di rimediare a due errori. Il primo è di aver rinunciato, a causa di vari sensi di colpa, a esercitare «una funzione attiva nella società e perfino nella famiglia». Il secondo errore? «Ci siamo messi nelle mani d'una decina di migliaia di burocrati - burocrati dei partiti, dello Stato, del capitale - i quali occupati come sono a conservarsi, contendersi, spartirsi ogni più piccola briciola del potere non hanno più tempo per noi». Questo scriveva Berto nel 1971. Sottoscrivo tutto, oggi, 2018. Con una piccola correzione all'ultima riga. Invece di «non hanno più tempo per noi», sostituire con «non dobbiamo più consentire ci derubino». Un troppo vasto programma, temo.

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