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Elisabetta Sgarbi a Libero: "La cultura è una farmacia"

Maria Pezzi
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 La signora innalza al cielo la rosa e sorride agli dei: una pagina vaporosa del Piccolo Principe. E i suoi fan -intellettuali, scrittori, semplici lettori voraci- innalzano la signora sul palco della Milanesiana, la manifestazione letteraria divenuta il respiro civile della città. La scena è cinematografica. Elisabetta Sgarbi -classe '65 completo nero, charme affilato e un anello verde a forma di rana- affonda tra gli applausi. Un megamanager di un grande gruppo assicurativo le fa il baciamano e lei, sorridendo sussurra: «Lei mi ha fatto i complimenti, sappia che le chiederò dei soldi...». Così è lei, cara Elisabetta. Da un lato inala e distribuisce bellezza, dall' altro pensa già agli sponsor per l' anno prossimo... «Cosi avrebbe fatto mia madre Rina. Era inarrivabile e lo è ancora. Lo sottoscriverebbe anche mio fratello Vittorio rispetto a sè. Quello che lei ha fatto, e quello che continuo a scoprire che ha fatto, è incredibile. L' altra sera ad Ascoli Michele Placido interpretava davanti a un pubblico commosso i testi di mio padre. Ha cominciato a piovere. Mia madre, da lassù era seccata dal non essere al centro dell' attenzione». Sua madre era un pirotecnico «ufficiale di complemento», suo padre scriveva dei colori del Po e di biciclette con la «tristezza seduta sulla canna». Quali erano i rapporti e le gerarchie all' interno della famiglia Sgarbi? «Governava mia madre. Mio padre, che comunque era titolare della farmacia e proprietario della casa, aveva ceduto la propria sovranità: era proprietario delle sue inattaccabili abitudini che nessuno poteva sovvertire. Neppure lei. Ed era un uomo entusiasta di vivere. Poi c' era la nostra anarchia, mia e di Vittorio. Almeno fino a quando tutti eravamo in forze. Poi la mia anarchia si è in parte trasformata in attenzione ossessiva per i miei genitori. Ma questa è una storia diversa. La terrei per me». Suo padre Nino fu un caso letterario. Forse soltanto Saramago e Frank McCourt sono riusciti a prendere a braccetto la propria vecchiaia e portarla a spasso tra i ricordi, trasformandola in letteratura. Com' è accaduto? «Mio padre è sempre stato un narratore, in forma orale. Ed è stato sempre un grande lettore: ha collezionato, e letto, tutta la serie Bur classica. Che pochissimi hanno. Era capitato, aveva 91, 92 anni che si era intristito molto in per un problema di salute. Così gli dissi: "Papà, racconti storie bellissime, perché non le mettiamo per iscritto?". Così cominciò a lavorare con un amico, Giuseppe Cesaro. E, già alla prima lettura, mi resi conto della sua capacità di trasferire sulla pagina la verità della vita con freschezza assoluta. E vinse il Bancarella». Dai giuristi Marchetti e Flick agli scienziati Damasio e Rovelli, dal filosofo Magris all' ormai divulgatore economico Napoletano, fino al Pulitzer Cunnighman. Mai come quest' anno la Milanesiana è trasversale. Non è che la sua creatura s' è troppo internazionalizzata, rispetto all' idea originale di rimarcare la supremazia culturale di Milano? «Io vedo continuità. Certamente all' inizio tutto era più concentrato, a partire dal luogo: Palazzo Isimbardi. Ma mi è mai appartenuta la rivendicazione della centralità di Milano: anzitutto, 20 anni fa, era centrale Roma, anche per la attività culturale. E poi per me vale il principio inverso: è proprio del dna della Milanesiana il policentrismo. Il nome "Milanesiana", fu un equivoco, sul quale mi scontrai con l' allora assessore Ombretta Colli: lei voleva un equivalente della Versiliana. Io intendevo un Festival che si chiamasse "Sulle spalle dei giganti", in cui i maestri di allora dialogassero con la tradizione». Spesso lei rivendica, istintivamente, la centralità di Ferrara. Perché? «Persino di Ro Ferrarese: nella casa di campagna dove sono cresciuta ho visto passare buona parte della cultura del '900. Ma, per farla breve, un certo punto ho sentito che parlare solo a Milano per un festival che si chiama Milanesiana fosse una cosa, paradossalmente, sbagliata. E così ho iniziato a seguire il flusso degli incontri: Bormio, Ascoli, Verbania, forse la piccola Cancelli, in futuro.Tutto sul passaparola. Mi piace la provincia». Però, Ferrara rimane «il nido dell' anima» (si diceva un tempo), no? «A Ferrara vorrei una sede permanente, al Castello, per la parte più importante della collezione della Fondazione Cavallini Sgarbi che include almeno 300 dipinti e una collezione di libri antichi. La nostra casa-museo di Ro è a soli 15 Km. Si tratta di salvare e dare valore a un patrimonio straordinario, che sta per essere vincolato interamente, frutto del genio di mio fratello e dei miei genitori». Se c' è una cosa che la lega a suo fratello Vittorio è l' adrenalina. Ha portato la manifestazione in mezza Italia e neppure una stilla di sudore. Ogni città conquistata mi sembra una specie di Risiko culturale. Non bastavano gli osanna di Milano? «Milano, per fortuna sua, non osanna. È città severa che testimonia l' apprezzamento permettendoti di continuare a fare quello che fai. Molte delle cose che faccio sono intuitive. Poi, dopo, viene fuori un senso e una giustificazione razionale. In fondo sono una farmacista, conosco il senso delle dosi». Questa cosa della farmacista gliela sento ripetere spesso. «Vero, è un mio vanto». Ma, scusi, cosa c' entra la farmacia con una che ha fondato una casa editrice in inarrestabile ascesa, La Nave di Teseo? «C' entra. Nell' editoria la cultura, l' intuito, giocano un ruolo necessario, ma non sono sufficienti. Serve una dose enorme di concretezza perché alla fine il libro è un oggetto reale, composto di tante parti che devono stare bene insieme; che deve essere moltiplicato in un numero non casuale di esemplari, raggiungere più luoghi possibili e convivere con altri "oggetti" dello stesso tipo. La mia formazione mi ha aiutato nell' esigenza di ordine, nell' attenzione alle varie componenti». Lei e Vittorio avete caratteri diametralmente opposti. Tanto mediatico e tracimante lui, tanto understatement lei. I suoi eccessi l' hanno mai infastidita? «Quando mi infastidiscono glielo dico. Quando li considero giusti glielo dico. Sono una farmacista -ripeto- e non ragiono mai per categorie astratte di giusto e sbagliato. Ma ci vogliamo molto bene e ci ammiriamo a distanza». Come si è accesa la sua carriera editoriale? Non pensava, banalmente, appunto, ad una vita da farmacista? «Non riesco a vedere la mia vita editoriale in termini di carriera. Avrei potuto ricoprire un ruolo importante nella nuova Mondadori, ma ho preferito ricominciare tutto da capo e da zero con La nave di Teseo. L' editoria non è atta per chi pensa al proprio lavoro in termini di carriera». Perché non è rimasta in Bompiani, dove era la editor suprema, e come le è venuta l' idea della Nave di Teseo, nel 2015? Allergica anche lei al «pensiero unico berlusconiano»? «Storia lunga raccontata mille volte, servirebbe un' altra intervista. Esiste in Italia nel mercato editoriale una anomalia di mercato, una posizione dominante. Lo dicono i numeri, soprattutto se confrontati con altri Paesi europei e con gli Usa. La presenza di Berlusconi per alcuni miei compagni di avventura era una aggravante. Io sono sempre stata aderente alla motivazione numerica». Ritiene che la Bompiani, oggi sia in buone mani? «Certamente. Beatrice Masini la avevo chiamata personalmente per rafforzare la Bompiani, quando, nel 2013, la stavano mandando via dalla Rizzoli. È una bravissima scrittrice e una donna colta e sensibile. Non conosco Giunti ma sono un importante gruppo editoriale» Come vede la lenta avanzata di Cairo anche negli spazzi sempre più stretti dell' editoria? «Bene, ha un solido gruppo alle spalle. Certo poi si giudicano i libri e gli autori, non i gruppi industriali. Fa una certa impressione che la RCS venda il secondo gruppo editoriale italiano (con Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Rizzoli Usa, metà Marsilio e Il 51% di Adelphi) alla Mondadori, per ricominciare da zero una nuova casa editrice del Corriere della Sera». Il suo rapporto con Umberto Eco. Non è che ha acquisito Baldini e Castoldi, Linus compreso, perché spinta da una freudiana riconoscenza verso il maestro (di Linus Eco fu tra i fondatori)? «No assolutamente. Gli azionisti e soci della Nave di Teseo non avrebbero mai investito per una iniziativa di gratitudine. Era una opportunità: salvare un editore storico che aveva altre due case editrici (Linus e La Tartaruga) e aumentare la "massa critica"». Nel 2013 lei fu partner editoriale di Masterpiece, primo reality letterario su Raitre. Che fu un flop clamoroso. Lei lì, scusi, faceva un po' la parte di Gertrude Stein, ma non andò benissimo. «Non lo rifarei mai. Lo ho fatto perché me lo ha chiesto la azienda per cui lavoravo. Quella trasmissione non era letteratura e dubito che fosse una bella televisione». Cosa manca alla nostra editoria per tornare ai livelli dei primi Rizzoli, dei Longanesi dei Feltrinelli? «Evitare posizioni dominanti, editori che gestiscono tutta la filiera editoriale dalla scelta alla vendita finale. E lavorare molto sulle librerie indipendenti, trovare un dialogo con i giganti dell' e-commerce. Ma siccome tutto questo non si è fatto, non so come rispondere». Rimorsi e rimpianti (se ci sono, ma di solito ci sono sempre). «Vado troppo veloce per rimorsi o rimpianti. Quando mi fermo penso alle persone che non ci sono più e cerco di riprendere la corsa». di Francesco Specchia

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