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Vittorio Feltri, la morte di Borrelli e la vecchia intervista a Di Pietro: "Come è nata davvero Mani Pulite"

Davide Locano
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Qui sotto, l'intervista di Vittorio Feltri ad Antonio Di Pietro pubblicata sull'Indipendente del 5 giugno 1992 La stanza di Antonio Di Pietro, che è diventato un idolo popolare perché fa il suo dovere, perché fa il giudice come dovrebbero farlo tutti i giudici, è al quarto piano del palazzo di Giustizia, che è il palazzo più sudicio di Milano, e mi riferisco solo ai marmi, bianchi in origine, immagino, e ora grigi, sporchi come le mani di tanti uomini politici e uomini d' affari. È una stanza ingombra di faldoni e di scrivanie disseminate di fogli, dietro alle quali siedono giovanotti che non hanno l' aria di impiegati, e in effetti sono poliziotti, che non hanno l' aria di poliziotti: jeans, scarpe da tennis, barba lunga. Lavorano con lui, e lui se ne sta in un angolo, vicino alla finestra da cui si intravedono tetti opachi e muri sbreccati, riparato da un armadio-libreria. Davanti al suo tavolo, due sedie; una è occupata, anche quella, da una pila di documenti, che non oso guardare per paura di leggerci qualche nome e di non resistere poi alla tentazione di annotarmelo; l' altra è per me: la occupo io. Di Pietro è in maniche di camicia; la giacca con le tasche gonfie è appesa alla parete, tra illustrazioni polverose di carabinieri con pennacchio rosso e blu, carabinieri a cavallo, carabinieri con sciabola. È una stanza triste, sembra il commissariato in un film neorealista. E dove li fa gli interrogatori, dottor Di Pietro? «Dove vuole che li faccia, qui. L' interrogato siede dove siede lei». Qua in mezzo a tutti? «Loro non sono tutti, sono miei collaboratori. Io e i miei collaboratori siamo una famiglia». Ma tu pensa. Mezza Milano trema. L'intera Italia politica trema. Tremano tutti al cospetto di questo magistrato, che in tre mesi ha fatto ciò che ad altri non era riuscito di fare in quarant' anni, un po' di pulizia, e la Giustizia lo costringe a vivere otto, dieci, quindici ore al giorno in questo magazzino di scartoffie, nel quale un paio di computer accesi sono il solo tocco di modernità. Se il ministro Martelli, invece che rilasciare dichiarazioni di solidarietà a Bobo e papà per la nota vicenda, venisse qui a constatare in quali condizioni lavorano i magistrati, probabilmente impiegherebbe più utilmente il suo tempo e imparerebbe che in questo paese se i tribunali funzionano male è un miracolo. Leggi anche: Mani Pulite, Vittorio Feltri svela la bufala su Francesco Saverio Borrelli Osservandone le strutture ci si convince che non dovrebbero funzionare affatto. Qualcuno ha parlato di Di Pietro come un eroe perché ha avuto e ha il coraggio di tenere la schiena dritta davanti ai potenti. Certo. Ma il suo eroismo, se di eroismo si tratta, consiste nel suo essere efficiente in questo microcasino della Giustizia. E la gente, la quale, come pensano i politici, non capisce niente ma, contrariamente a quanto pensano i politici, intuisce tutto, ha intuito anche questo: che Di Pietro è uno sgobbone, uno che ci dà dentro, uno che va avanti per la sua strada anche se la strada non c'è, una persona seria che si muove in un ambiente, quello dei partiti, che di serio ha solamente la disonestà. Signor giudice è consapevole della simpatia, della stima che la circondano? «So che c'è ansia di chiarezza, un profondo desiderio di moralità; e questo incoraggia chi fa il mio mestiere». Altro che ansia, lei è al centro di un tifo da stadio. E non pochi, io tra questi, sospettano che a lungo andare la cosa solletichi la sua vanità. Non si offenda, siamo tutti un po' vanitosi «Sono talmente preso che non ho cinque minuti liberi. Se è come dice lei, mah, non me ne sono accorto. Come potrei accorgermi di quello che accade fuori di qui se fuori di qui non metto piede? Montarmi la testa? No, è un pericolo che non corro». Chissà quante pressioni riceve, quanti tentativi di rabbonirla. «Rabbonirmi? Mica sono cattivo. Semplicemente mi impegno nel lavoro. Quanto alle pressioni, nemmeno una. Né all' interno di questo palazzo né all' esterno. Nessuno ha cercato, in alcun modo, di bloccare l' inchiesta». A proposito, il procedimento da che cosa ha preso l' avvio? «Nulla di romanzesco. Da due anni studiavo il fenomeno, diciamo che ero abbastanza preparato in materia di tangenti. E quando mi è capitata fra le mani una querela per diffamazione sporta da Chiesa, è partita la macchina. Un passo dopo l' altro siamo andati lontano. Ma ci siamo andati non per la querela in sé bensì perché eravamo pronti a compiere il grande viaggio nella corruzione che ammorba la vita pubblica. Non ci sono misteri, non ci sono delazioni, non ci sono pentiti. Solo una gran fatica nostra». È sicuro di non essere stato strumentalizzato, inconsapevolmente magari? «Sicuro, sicurissimo. Maneggio fascicoli, sto ai fatti, agli accertamenti, come è ovvio. Degli inquisiti mi preme la posizione processuale, non il resto: il colore dei capelli, la tessera non m' importano. Recentemente ho arrestato un tale che ritenevo fosse del partito ics e solo al momento di interrogarlo ho scoperto che era del partito ipsilon. Una scoperta influente, comunque». Influente anche quella di Craxi? «Mi debbo ripetere: ciò che riguarda Craxi e il figlio è penalmente non rilevante. Altre valutazioni non spettano a me e non ne faccio». D'accordo, ma si ha la sensazione che pochi si salvino, che il marciume sia dilagato a ogni livello. «È sbagliato generalizzare. Vi sono imprenditori che hanno corrotto, altri che non si sono opposti con molto vigore alle richieste di denaro, e altri che hanno subito e sono vittime. Insomma, diversi gradi di responsabilità. Poi vi sono politici che pretendevano e altri che incassavano e giravano al partito nella convinzione di non commettere, personalmente, reati. E a parte il fatto che non si può fare di ogni erba un fascio, va ricordato che nessuno è colpevole fino al giudizio definitivo. Quindi la prudenza nel qualificare una persona coinvolta non è mai troppa». Tra quelli che le sono passati davanti, e sono una folla, qualcuno le ha fatto pena? «Il termine pena non è esatto. Però ammetto che mandare un uomo in carcere provoca sempre angoscia, me ne provoca molta. Quando sono ricorso alle manette è stato perché esisteva il rischio effettivo di inquinamento delle prove, mai per spettacolizzare l'indagine, ci mancherebbe». Suppongo che non saranno mancati gli arroganti. «Non è vero. Con tutti ho avuto un rapporto leale, di collaborazione anche; gli interrogatori li ho vissuti così e spero che così li abbiamo vissuti gli inquisiti». Non ha paura? «Di che?». Beh, insomma, col quarantotto che lei ha creato, con le carriere che ha troncato come fa a stare tranquillo? «Ho la tranquillità di chi non è andato oltre la misura e si è attenuto alle leggi e che quelle leggi è pagato per servire». Però le hanno assegnato la scorta, a lei e alla sua famiglia, si vede che tanto tranquilli non sono tutti. «Non è sbagliato prevenire, no?». Ormai sono mesi, quando si chiuderà questa storia? «Non dipende da me, né sono in grado di fare previsioni». Il processo sarà interminabile, complicato. E a volte le cose complicate sono come bolle di sapone. Per dirla con franchezza, non teme che si applicherà la vecchia equazione: tutti colpevoli uguale a tutti innocenti e buona notte al secchio? «L'impostazione del processo tiene conto del nuovo codice, non sarà un gioco di intrecci, non c' è il pericolo di garbugli e ogni episodio sarà circoscritto. Andremo fino in fondo». Glielo auguro. Me lo auguro. Lo auguro agli italiani. E che ogni città abbia presto il suo Di Pietro. Già, perché non ce n'è uno in ogni città? di Vittorio Feltri

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