A Giorgio Armani la moda non piace più
Ma ci ha campato assai. E se il re delle passerelle si scagliasse contro le vere piaghe del settore (tipo il "mercato parallelo") ?
Diciamola tutta: è un po’ come se Mariotto Segni tifasse, all’improvviso per il sistema proporzionale; o se l’Olanda di Cruijff si convertisse al catenaccio; o se Al Bano cantasse i Led Zeppelin. Giorgio Armani che prende a ceffoni quel sistema moda di cui è l’ineguagliato sovrano ha il sapore sorprendente dell’ossimoro. Eppure.
Eppure, quando Armani in una pubblica missiva a WWD Women’s Wear Daily, rivista punto di riferimento del mondo della moda, s’è lanciato in uno dei più vellutati j’accuse che il fashion ricordi; be’, chi lo conosce un po’ se l’aspettava. “Il declino del sistema moda, per come lo conosciamo, è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion con il ciclo di consegna continua, nella speranza di vendere di più…Io non voglio più lavorare così, è immorale”, afferma Re Giorgio. E aggiunge che “non ha senso che una mia giacca, o un mio tailleur vivano in negozio per tre settimane, diventino immediatamente obsoleti, e vengano sostituiti da merce nuova, che non è poi troppo diversa da quella che l’ha preceduta”. Eppoi, lasciandosi prendere dalla vertigine dell’abisso sul quale in questo momento pencola l’intero suo settore (un calo di fatturato del 50% su un sistema di ricavi di 90 miliardi di euro che solo l’anno scorso aveva registrato un +6,2% dell’export), lo stilista ha espresso pensieri che appartengono, fondamentalmente, al popolo. “Ho sempre creduto in una idea di eleganza senza tempo, nella realizzazione di capi d’abbigliamento che suggeriscano un unico modo di acquistarli: che durino nel tempo. Per lo stesso motivo trovo assurdo che durante il pieno inverno, in boutique, ci siano i vestiti di lino e durante estate i cappotti di alpaca: il desiderio d’acquisto debba essere soddisfatto nell’immediato” ha aggiunto Armani, redigendo un vero e proprio manifesto a base di “basta”. “Basta spettacolarizzazione, basta sprechi. Le collezioni estive rimangano in boutique almeno fino ai primi di settembre, com’è naturale che sia. E così faremo da ora in poi. Questa crisi è anche una meravigliosa opportunità per ridare valore all’autenticità”. E via con la promessa di abbandonare le sfilate-show, i viaggi costosi, il lusso sfrenato. Quest’ansia francescana di Armani può essere autentica. D’altronde come imprenditore è stato il primo ad annunciare la riconversione dei suoi stabilimenti in fabbriche di camici per i medici in trincea contro il Coronavirus; e probabilmente è il più indicato a rinconvertire un sistema in cui sguazza egregiamente da 45 anni. Armani è del 1934, ha attraversato quattro generazioni, oramai è un monumento vivente, ha una ricchezza valutata 11, 2 miliardi di dollari. Che gli frega. Ognuno incontra il tempo della sua personale via di Damasco.
Però, a questo punto, signor Armani, giochiamocela tutta. Perché non provare davvero a sovvertire l’intero sistema moda Italia, ad eliminarne dall’interno i veri tarli che ne stanno, lentamente, rosicchiando economia interna, credibilità, gusto estetico? La moda è quel settore le cui manchevolezze -grazie ad una particolare sensibilità, diciamo, “commerciale”- i media tendono ad ignorare. Eppure, gli addetti ai lavori ben sanno del vizietto del “mercato parallelo” attraverso cui esercenti e terzisti acquistano tonnellate di stock di abiti delle più note griffe per rivenderli ai mercati asiatici (specie ai cinesi, sempre loro). La quale pratica -pur non illegale- produce una falsa percezione del venduto nel mercato italiano privandolo in gran parte della stima reale del consumo interno; crea un sotterraneo mercato di stecche e mazzette che attraversano la filiera e la snaturano; determina la creazione di negozi extralusso in centro che spesso sono cattedrali nel deserto. Tant’è che, a memoria di stilista, le ultime grandi file di clientela italiana, gli ultimi veri fenomeni di “lusso di massa” sono stati proprio gli Empori Armani che non s’erano piegati alla piaga del “parallelo”. E, tra l’altro, il fatto di dipendere dai mercati asiatici quasi totalmente, non solo depotenzia il mercato italiano interno (ecco il motivo della grande crisi); ma fa sì che la nostra moda si pieghi gradualmente al gusto e fatturato asiatico. Sicché il prodotto s’imbruttisce, “ed è più facile trovare un capo di buon gusto da Zara che in via MonteNapo”, sussurrano alcuni stessi dirigenti Armani. Poi, per dire, c’è il tema della grandeur anni ’80 che ha spinto i grandi brand a spese fisse elefantiache e all’aumento dei prezzi e a destabilizzare la filiera (si salvano aziende, come Stone Island che rimodulano se stesse e che calcolano un fatturato da 1 milione per dipendente). La gente -di questi tempi- si è rotta di pagare 400 euro una camicia che costa 5 dollari; ed ecco il successo del low cost ma con eleganza. Ecco. Forse sarebbe questo l’ulteriore step della conversione di Armani. Viviamo tempi interessanti, direbbe Mao…