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Irene va alla guerra: vita e opere di Irene Tinagli vicesegretaria (che molti nel Pd non amano)

Irene Tinagli

Da montiana a lettiana, cervello in fuga e ritorno, non amata dai compagni duri e puri e dalle correnti: chi è l'economista

Francesco Specchia
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Prima -per quanto un po’ maestrina a vedersi, ma toscanamente cazzara a parlarci- avevamo dei dubbi; non tanto sulla qualità economica ma sul tessuto politico della signora, sempre lì in bilico fra Keynes e l’operaismo, il libero mercato e la contrattazione collettiva.

Quando però, all’indomani della sua nomina a vicesegretaria vicaria (cioè, in emergenza, con pieni poteri) del Pd, Irene Tinagli è stata accolta da un titolone del Manifesto come “Irene l’‘esperta’, l’eterna promessa non mantenuta”; be’, lì, abbiamo realizzato che Enrico Letta aveva fatto la scelta giusta. Parliamoci chiaro. Per quanto formalmente apprezzata, Tinagli vice del segretario non ha acceso nel partito particolari entusiasmi. Né  tra le donne, spesso boldriane di ritorno livide di carriera interna, che con la scusa delle quote rosa miravano ad ottenere più potere interdittivo all’interno Ditta (e Tinagli non fa parte di nessuna corrente se non quella di competenza lettiana); né tra i fedelissimi della sinistra-sinistra che la considerano quasi di destra, sicuramente montiana, un corpo estraneo al Pd pur avendo lei, giovanissima, fatto parte dell’assembla costituente, ramo Veltroni. In effetti, Tinagli, empolese, 47 anni, un marito accademico e un figlio, laurea in Bocconi, bella testa e bella presenza, è sempre stata un po’ estranea alle liturgie del Pd. Non esitò a mollare la politica per finire il dottorato in Sviluppo economico a Pittsburgh. E preferì alla carriera di partito quella accademica. Le collaborazioni sulla creatività e l’economia urbana con il teorico degli studi urbani Richard Florida invece della frequentazione di Bersani, Madia, Orfini o Rosi Bindi; e l’insegnamento all’Università Carlos III di Madrid, le consulenze per le Nazioni Unite e per la Direzione Istruzione e Cultura della Ue al posto dei dialogo con i sindacati e le salamelle alla Festa dell’Unità; e i libri scritti con ricercatori dell'Università di Göteborg, la nomina a Young Global Leader dal World Economic Forum e la cattedra alla Science Po del preside Enrico Letta, invece dell’inseguimento delle mille candidature comprese quelle a segretario del Pd e di premier (“Ce la vedrei bene, Irene”, disse Calenda poco prima che lei lo mollasse sull’altare di Azione per rimanere nel Pd…) sempre sfumate. Tutto, in Tinagli, denota un carattere di vibratile outsider che infastidisce i quadri dell’antico Pci. “Vibratile” è aggettivo che le si attaglia. Certo, il Manifesto le imputa di aver cambiato schieramento con la frequenza degli sbalzi del deficit strutturale italiano (o di un vecchio Dc): “I salti carpiati dell’economista: da Veltroni a Montezemolo, Monti, Renzi e Calenda alla ricerca del "riformismo" perduto”. E un po’ è vero. E risponde a verità pure che il periodo di Irene da deputato in Scelta Civica sia sbianchettato, così come che Irene abbia obliato il passato renziano (succede a molti). Ed è anche agli atti che la prima volta che mollò nel 2008  il partito, fu perché lo stesso Pd faceva opposizione al ministro dell’Istruzione Gelmini e con gli argomenti “più scontati e deboli: le proteste contro i tagli, la retorica del precariato. La gente ci giudicherà per quello che abbiamo fatto”, si leggeva nella sua missiva d’addio. Che poi, in quest’ultimo caso -dato come sta messa oggi la Ditta- aveva ragione. Epperò, il problema è che il partito ad essere fermo, e le sue idee, tendenzialmente riformiste sono sempre in movimento.

Tinagli è uno di quei cervelli italici che bascula tra la fuga e l’eterno ritorno, spesso ricercando dolorosamente d’un punto d’appoggio. E’ tanto brava quanto strategica, specie quando s’addentra nell’analisi economica. Sul Draghi ha le idee chiare. Quando il premier afferma che non è necessario richiedere i 120 miliardi di prestiti se non ci sono piani ben strutturati, lei commenta alla Stampa “una valutazione più approfondita potrebbe essere saggia. L’Italia è l’unico Paese ad aver manifestato l’intenzione di chiedere subito l’intera quota dei prestiti”. Quando da sinistra si accenna ai nuovi aiuti di Alitalia e a una nuova Iri, lei risponde: “Gli aiuti di stato costano, tanto, e pesano sui bilanci dello Stato: oggi non tutti i Paesi possono permetterseli”. Roba da far venire un calo degli zuccheri al suo co-vice Provenzano e tutta l’allegra banda dei compagni. La signora, lettianamente, ha capito tutto…

 

 

 

 

 

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