Cerca
Logo
Cerca
+

Massimiliano Valerii, l'allarme: "Italia rovinata dall'austerity. Per uscire dalla crisi dobbiamo recuperare la nostra identità"

 Massimiliano Valerii

Pietro Senaldi
  • a
  • a
  • a

«A me mi ha rovinato la guera», diceva Alberto Sordi in frac nei panni di Gastone. «E all’Italia l’ha rovinata l’austerità», gli fa eco Massimiliano Valerii, direttore del Censis che, malgrado sia a capo di un istituto di ricerca socio-economico, non teme di andare contro il dogma socio-economico degli ultimi trent' anni. «Già prima della pandemia i consumi degli italiani erano al di sotto di quelli precedenti la crisi del 2008, dalla quale di fatto non ci siamo mai ripresi. Dal 2009 al 2019 siamo cresciuti del 2,4%, contro una media Ue del 16,7 e questo è dovuto soprattutto al fatto che i consumi interni sono calati; non si vive di solo export e di eccesso di competitività si può anche morire, se questo si traduce in depressione». Non è un discorso sovranista ma realista, anche se non piacerà agli europeisti d'antan, quelli alla Monti, alla Schauble, alla Dombrovskis, alla Dijsselbloem o alla Juncker. Ma è un dato di fatto che da quando, a causa dell'obbligo di rispetto dei parametri di Maastricht, gli italiani hanno provato a fare i tedeschi sono diventati praticamente greci. «Malgrado un robusto taglio degli sprechi» spiega Valerii, «il debito pubblico è aumentato, perché la riduzione della spesa pubblica ha comportato un calo ancora più grande della crescita».

Era evitabile? Non più di tanto, «perché quando ti siedi a tavola devi rispettare le regole del consesso, le quali generalmente sono fatte dal più forte, che non siamo noi. E ti tocca accettarle anche se ti penalizzano». Ecco la storia dell'Europa a trazione nordica e tedesca e della crisi italiana. La buona notizia è che pare acqua passata, perché «si va verso un cambio di paradigma, anche grazie al Covid, che ha accelerato tutti i processi e messo in evidenza gli errori del sistema precedente».

 

 

Direttore, che ricetta dovrà seguire l'Italia per rialzarsi? «La parola d'ordine è ridondanza. Noi italiani non siamo tedeschi, la frugalità, che è il concetto opposto alla ridondanza, non ci è congeniale, ci deprime».

Come ridondiamo con un debito pubblico al 160%?
«Il debito pubblico diventa un problema solo in mancanza di crescita».

Negli anni Ottanta abbiamo speso tanto, ed è da trent' anni che ne paghiamo il prezzo...
«Ridondanza non significa sprechi, bensì non aver paura di spendere in investimenti. L'Italia ancora oggi beneficia dell'opulenza e dello spirito vitale del Rinascimento. Quella è la nostra natura, se la assecondiamo torneremo ricchi. L'austerità ci porta alla rovina e ha causato la fuga di cervelli: l'italiano ha furore di vivere, cerca il lusso, il guadagno, se non lo trova in patria, va all'estero».

Tutto il contrario di quello che la politica ci ha offerto negli ultimi anni...
«L'italiano è stile, estro, vitalità, concetti non inscatolabili dentro parametri economici o in algoritmi e sequenze ripetitive: dobbiamo recuperare la nostra identità per uscire dalla crisi, affidarci alla nostra natura».

Eppure M5S ha preso il 34% dei voti parlando di decrescita felice...
«Quello slogan è un abbaglio da non prendere in considerazione, ha avuto successo perché il Paese era spaventato del futuro e le fasce più deboli della popolazione hanno avuto la sensazione che tornare indietro potesse essere una soluzione. Niente di più sbagliato, solo la crescita consente di diminuire le diseguaglianze e dà stabilità alla società. Al mito della decrescita felice abbiamo pagato tributi pesanti».

Per esempio quali?
«Mi viene in mente la mortificazione del territorio. La vitalità e la diversità dei nostri territori, che sono una ricchezza tipicamente italiana, è stata spenta dalla battaglia dello Stato centrale alle Regioni, che peraltro è stata una delle cifre dello scontro politico durante la gestione della pandemia».

No allo Stato centrale dunque?
«Siamo il Paese dei mille campanili, il centralismo è, come l'austerità, qualcosa che va contro la nostra storia e la nostra natura».

Draghi le pare l'uomo della ridondanza?
«Fa discorsi che vanno in questo senso quando parla di rilanciare i consumi e ha distinto tra debito buono e debito cattivo. Ma la ridondanza non puoi farla da solo, devi essere capace di venderla all'estero, e lui può farcela, perché gode di ottima reputazione e vanta rapporti personali unici».

E soprattutto perché anche gli altri sono messi male?
«È il portato del Covid, che ha cambiato la sensibilità ovunque».

Come mai il premier è così popolare?
«Perché non è identificabile con una forza politica e perché simbolizza il deus ex machina, quello piovuto dal cielo per salvarti. Risponde in parte alla forte domanda degli italiani dell'uomo forte».

 

 

Che Italia lascia la pandemia?
«Le parole d'ordine prima del Covid erano paura e insicurezza; tant'è che la gente accumulava denaro in banca senza spendere. A causa dell'incertezza nel futuro si era creata una bolla di risparmio anomala, i quattrini degli italiani di fatto sono la quinta economia dell'Europa, dopo quella di Germania, Francia, Italia e Spagna. Oggi c'è speranza di ripartire, mi attendo una forte ripresa dei consumi, ma bisognerà vedere quanto durerà».

Ma la ricerca della crescita non fa a pugni con il mantra della sostenibilità, che pare la busso la di ogni scelta economica?
«La sostenibilità è un obiettivo da perseguire, ma è forte il rischio di un eccesso di retorica, che sconfini nell'irrealtà».

O non si inquina o si cresce?
«Non è corretto presentare la questione come un'alternativa rigida. Però non possiamo far finta che la ricerca esasperata della sostenibilità non comporti un prezzo che qualcuno deve pagare. Il Covid ha fatto chiudere molte imprese, stiamo attenti che il mito della sostenibilità non decimi anche quelle sopravvissute alle tre ondate di pandemia. Esiste una sostenibilità ecologica, ma ce n'è una anche sociale ed economica. Se per inseguire la prima perdi competitività, poi i conti del Paese vanno a rotoli».

La sostenibilità non è anche un'occasione di crescita e di affari?
«La sostenibilità può essere un volano allo sviluppo, e anzi lo sarà; ma, fuor di retorica, teniamo presente che oggi è difficile chiedere ai settori che hanno pagato più cara la pandemia ulteriori sacrifici. La sostenibilità dev' essere inclusiva, non può essere il fiore all'occhiello di alcune aziende d'élite e lasciare fuori le piccole e medie imprese».

 

 

Il tessuto sociale come è cambiato a causa della pandemia?
«Si è verificata una frattura sociale drammatica a livello generazionale. La vera guerra in Italia oggi non è tra bianchi e neri, cittadini e immigrati, uomini e donne, eterosessuali e gay ma tra giovani e vecchi».

Eppure oggi i ragazzi stanno in casa anche quando ormai sono diventati uomini, i nonni si occupano dei nipoti, gli anziani mantengono ancora i figli, in certi casi anche quando questi hanno già formato a loro volta una famiglia.
«Questo però non è un bene, perché il legame più stretto sfuma i ruoli e crea dinamiche di conflitto innaturali, rispetto a quelle consuete generazionali. Il percorso di crescita è meno cadenzato, e quindi più disorientante. Il risultato è che le nuove generazioni sono rancorose verso i padri, perché percepiscono che avranno una vita peggiore della loro, e gliene addebitano totalmente la colpa».

Il Covid ha peggiorato le cose?
«La rabbia ha radici economiche: i giovani avvertono di avere poche prospettive. La distanza tra generazioni è abissale, accentuata dal fatto che abbiamo da una parte la dei dipendenti dal web e dall'altra degli analfabeti digitali, il che fa sì che giovani e vecchi parlino linguaggi diversi. L'epidemia poi ha aggravato la situazione perché i ragazzi hanno perso il lavoro mentre i cinquantenni l'hanno mantenuto, o hanno potuto beneficiare degli ammortizzatori sociali. Ma ha pesato anche l'aspetto sanitario, con i giovani costretti a stare in casa per non contagiare gli anziani. Non è un caso se oggi la maggior parte dei ragazzi ritiene che per i vecchi lo Stato spenda troppo».

 

 

Un tempo i giovani erano di sinistra e diventavano conservatori invecchiando, oggi la maggior parte dei giovani è di destra mentre gli anziani sono più a sinistra. Com' è stata possibile questa inversione?
«I giovani sono diventati di destra perché la sinistra non si è adattata alla realtà e non è più capace di intercettare la richiesta di una promessa del miglioramento delle condizioni sociali, che un tempo era la sua prerogativa. I vecchi invece sono di sinistra perché sono quelli più abbienti e, in tempi di cambiamento e nervosismo, essa si è focalizzata sul mantenimento dei diritti dei garantiti».

Ma se sono tanto ambiziosi come mai molti giovani rifiutano lavori sognando il reddito di cittadinanza?
«La politica del reddito di cittadinanza è un surrogato dell'economia, una sorta di doping, sospende il principio di realtà e dà assuefazione; sono strumenti che vanno bene in momenti emergenziali, ma bisogna stare attenti a non confondere il sostegno ai poveri, che è doveroso, con l'assistenzialismo, che è la risposta che dà la politica quando è incapace di trovare soluzioni e cerca il consenso attraverso i bonus non riuscendo a riattivare i processi di crescita in maniera virtuosa».

Dai blog