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Vittorio Feltri, per uscire dalla povertà c'è un solo modo

Vittorio Feltri

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Sono stato anche io povero, per una brevissima fase della mia esistenza, la quale tuttavia mi ha segnato, poiché è stato in seguito all'indigenza sofferta quando l'attività commerciale di mia madre, vedova, fallì, che io decisi che da grande avrei fatto il ricco, ovvero che mai più io o i miei familiari avremmo patito le ristrettezze della miseria. Ecco perché quando sento ciarlare di "povertà ereditaria", che si estinguerebbe dopo non meno di cinque generazioni, non posso fare a meno di riflettere sul fatto che per me la povertà è stata uno stimolo e non una condanna ereditata dai miei e poi passata ai miei stessi figli

. Da qui discende la mia consapevolezza che talvolta l'essere o non essere poveri è frutto di una scelta, di una volontà, o almeno che il campare da poveracci derivi da una assenza di iniziativa, da un rifiuto della fatica. Mi sono dato da fare, ho sgobbato senza sosta, e mi sono arricchito, non perché il denaro, il lavoro, la carriera, le opportunità mi siano cadute dal cielo: sono cose che mi sono procurato mediante impegno e sacrificio. Per questo i benestanti andrebbero ammirati, mentre in Italia è diffusa la pratica di odiarli e combatterli. Basti pensare che da giovanissimo neppure di sabato riposavo, il mio giorno di tregua lo dedicavo alla pulizia delle scale all'interno dei condomini. Ed ammetto che per lungo tempo mi sono quasi vergognato di avere fatto l'uomo delle pulizie nei palazzi, per poi capire che nulla al mondo è più dignitoso del lavoro e nulla al mondo è meno dignitoso del non lavorare allorché si è in salute, giovani e forti.

Adesso sono piuttosto orgoglioso di questi miei trascorsi. Qualcuno mi giudica severo quando affermo che molti sono poveri in quanto non hanno voglia di faticare. Ma è la pura verità e la verità non deve indignarci o scandalizzarci. È sufficiente considerare che migliaia di imprese non riescono a racimolare personale e se ne lamentano. La domanda di lavoro c'è. L'offerta scarseggia, ossia scarseggiano le braccia. Mi hanno impressionato i dati diffusi dalla Caritas: quasi un italiano su dieci versa in una condizione di povertà assoluta. Gli esperti sostengono che sia stata la pandemia a depauperarci, e ad essa si è sommata poi la guerra in Ucraina, i cui effetti sono devastanti e hanno prodotto inflazione, caro bollette, caro energia, crisi. Non mettiamo in dubbio tutto ciò. Eppure stadi fatto che l'occupazione non è carente per coloro che, mossi dal bisogno, accettano di svolgere anche quei mestieri oggigiorno ritenuti umili, persino degradanti. Sospetto che siamo diventati troppo schizzinosi, poco predisposti allo sforzo fisico, pigri, preferiamo accontentarci del reddito di cittadinanza, che di sicuro non ci rende benestanti, piuttosto che buttarci anima e corpo nel lavoro risorgendo e affrancandoci da una situazione di bisogno.

Il sussidio grillino ha dato l'illusione collettiva che la miseria fosse stata abolita, così come ci garantì l'ormai silurato Luigi Di Maio, pace all'anima sua, ma non alla nostra. Però la miseria è cresciuta, lo provano le statistiche, da quando è stato introdotto l'assegno pensato dai Cinquestelle. Con questo non intendo di certo dire che esso costituisca la causa della lievitazione dei poveri assoluti, ma senza dubbio non rappresenta la soluzione. Dalla indigenza ci si tira fuori rimboccandosi le maniche. Non esistono altre vie, se non quella improbabile di vincere la lotteria. Se siamo arrivati a quasi sei milioni di poveri, non è soltanto colpa del coronavirus e di Putin, è anche perché si sta estinguendo quel desiderio di arrivare che una volta ci spingeva al sacrificio, ci faceva tirare fuori l'ingegno, ci portava ad essere infaticabili e intraprendenti, desiderio che appassisce ormai di anno in anno. 

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