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Gianni Agnelli, Vittorio Feltri: "Come ha trascorso metà della sua vita"

Vittorio Feltri
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Venti anni fa il padrone storico della Fiat tirò le cuoia ultra ottantenne. Il luttuoso evento suscitò scalpore, perché l’Avvocato era un simbolo dell’Italia. È passato tanto tempo da quel 24 gennaio 2003 ma di Gianni Agnelli si parla ancora con una certa ammirazione. Ecco come ne percepimmo il decesso. Noi provvisoriamente vivi ci inchiniamo davanti ai morti perché in ciascuno di loro vediamo il nostro futuro. E ne parliamo bene poiché commemorandoli commemoriamo un po’ anche noi stessi. Ci portiamo avanti. Parce sepulto, si diceva una volta. Adattiamoci alle vecchie regole, eccetto una, quella che impone un sovraccarico di retorica all’epicedio. Vorremmo risparmiarvi e risparmiarci il rumore fastidioso prodotto da un vaso vuoto. Gianni Agnelli non c’è più. Si sapeva da tempo che doveva andarsene e se n’è andato ieri mattina senza cogliere impreparati i giornali. Nei cassetti delle redazioni, pardon, nei computer, dal maggio scorso c’erano già parecchi “coccodrilli”, cioè articoli scritti da specialisti in previsione dell’evento. Si è trattato solo di aggiornarli. D’altronde sul defunto, sulla sua famiglia, sulla fabbrica tutto è stato raccontato e molto inventato. C’è poco da aggiungere, a parte il finale non lieto. La vita dell’Avvocato (era laureato in Giurisprudenza) è stata lunga ma non lunghissima, in media con le statistiche: quasi 82 anni. Nei primi quaranta egli ha pensato a divertirsi con le ricchezze ereditate dal nonno.

Nel secondo quarantennio ha dovuto occuparsi dell’impresa per continuare a divertirsi e permettere al suo clan (più di cento famigliari) di fare altrettanto. Consapevole che i ricchi hanno l’esigenza del superfluo, badava non soltanto agli utili, ma pure ad accantonarli allo scopo di spartirli con nipoti e pronipoti abituati ad agi principeschi. In questa attività non ha sbagliato un colpo. Perfino negli anni più magri il denaro da dividere non è mai mancato, e ciò ha suscitato un interrogativo rimasto privo di risposta soddisfacente: come fa un’azienda in crisi ad avanzare risorse per i padroni? Recentemente Libero ha pubblicato un servizio di Renato Farina molto singolare, con tanto di tabelle zeppe di cifre. In sostanza se lo Stato, anziché versare contributi alla Fiat per consentirle di stare in piedi e dar lavoro a tanta gente, avesse pagato direttamente il salario a operai e impiegati, avrebbe risparmiato. Ma i numeri nell’economia moderna hanno lo stesso valore delle opinioni, sono variabili, dipende da chi li dà. Quindi non accusiamo. Ci limitiamo a costatare e riferire. Il senatore a vita guardava alle vicende del mondo, anche quelle in cui era implicato, con distacco. Ostentava un aristocratico aplomb e col suo modo di porsi ha, credo involontariamente, ispirato migliaia di imitatori fra i parvenu. Cloni malriusciti, spesso goffi e addirittura ridicoli. Qualcuno ha detto di lui: «La sua fortuna è stata quella di essersi trovato al vertice di un impero costruito da altri. Di suo ci ha messo l’erre arrotata e l’orologio sul polsino». È un giudizio sarcastico, riduttivo e ingiusto.

STRAORDINARIO PIERRE
Gianni Agnelli in verità, pur non avendo la stoffa del capitano d’industria, è stato uno straordinario pierre, come si dice oggi, un perfetto uomo di relazioni esterne all’impresa. Conosceva tutti i potenti della Terra e se ne serviva, dando sempre l’impressione non di chiedere ma di accettare con sorridente degnazione, lui che non sorrideva mai. Lui rappresentava la Fiat, ne era il marchio, la griffe ammirata. Però la Fiat non era sua, non l’ha posseduta con virile passione. Preferiva affidarne il governo ad altri, quasi gli desse fastidio l’odore del ferro, delle vernici e forse del sudore. Probabilmente non l’ha mai amata, lasciando l’incombenza di seguirla a manager quali Valletta, Romiti, Fresco. Come certe mamme troppo indaffarate nella cura di sé, le quali scaricano i figli sulle baby sitter e ne delegano l’educazione a istitutrici varie. Non devono poi rammaricarsi se la prole riserva spiacevoli sorprese. Nel caso della Fiat, la spiacevole sorpresa è che l’auto italiana ha perso lustro e competitività. L’Avvocato è morto ieri. Ma la grande industria è morta da tempo.

L’Olivetti, la Pirelli, la Breda, la Falck e tutte le altre sono solo un ricordo, anzi un incubo per l’Italia: quello di sentirsi la Calabria dell’Europa. E pensare che fino a qualche anno fa eravamo il settimo Paese più industrializzato. Condoglianza, sì. Ringraziamenti, no. Anche perché l’Avvocato, che non ha mai esercitato attività forense, non si può dire abbia esercitato tenacemente il ruolo del padrone delle ferriere, avendo cominciato ad occuparsi - si fa per dire - dell’azienda alla stessa età dei suoi ex dipendenti andati in prepensionamento, come all’epoca usava. Gianni nei posti di comando della Fiat non volle mai andare. Egli affidò a vari dirigenti il compito di guidare l’impero. Preferì diventare presidente di Confindustria segnalandosi per aver introdotto l’aumento della contingenza che mise in difficoltà gli industriali, poi si comprò palazzo Grassi a Venezia che chiuse i battenti. Ebbe un figlio, che si gettò da un ponte e finì al cimitero. Insomma la carriera anche familiare non fu brillantissima, forse proprio per questo Agnelli è rimasto nel cuore dei connazionali come il più grande degli italiani. 

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