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Dario Fabbri: "La Russia ha perso, ma Putin non si arrenderà"

Pietro Senaldi
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«L’escalation nucleare è un’opzione sul tavolo, ma come estrema ratio, se i russi fossero ricacciati dietro le loro frontiere. Putin sa che il suo popolo è capace di sopportare enormi sofferenze, ma non tollera la sconfitta militare. In quel caso, e solo in quello, ci sarebbe la rivoluzione, come nel 1905 o nel 1917. Gli Stati Uniti ne sono consapevoli, anche per questo negano armi offensive a Zelensky”.

 

Sul campo la situazione com’è?
«Dal punto di vista strategico Mosca ha perso la guerra. Putin un anno fa ha invaso una nazione immensa di 40 milioni di abitanti con appena 150mila uomini. Era convinto che, in nome di un’appartenenza sentimentale alla Grande Madre Russia, cementata dal collante della lingua comune, gli ucraini avrebbero preferito lui a Zelensky, ma ha avuto subito una brutta sorpresa: Kharkiv ha resistito mesi assediata senza arrendersi. Il leader russo non aveva fatto i conti con lo spirito patriottico di Kiev e confidava che gli Stati Uniti non intervenissero».

Intende l’Occidente?
«Per i russi l’Occidente sono gli Stati Uniti, loro considerano e vogliono parlare solo con gli americani».


L’Ucraina però pare in difficoltà sul campo. Lancia appelli, chiede sempre più armi...
«Perché sul piano tattico Mosca sta vincendo, occupa indebitamente territori che prima non aveva e li sottrae a Kiev. È riuscita a trasformare il conflitto in una guerra di logoramento, come è tradizione militare dell’Armata Rossa, che colma il deficit tecnologico con il fattore demografico, per cui alla fine i russi hanno sempre più perdite degli eserciti che sconfiggono. Però le truppe di Putin stanno procedendo molto lentamente anche in Donbass, che pure è un territorio a loro favorevole: sono ferme da quattro mesi a Bakhmut, restano lontane da Kramatorsk, la cui conquista rappresenterebbe una piccola svolta. Ora il regime ha annunciato l’offensiva di primavera, con una mobilitazione massiva di mezzo milione di uomini, puntando sulla stanchezza dell’esercito ucraino, senza rincalzi. Significherebbe spezzare il fronte e battere la resistenza ucraina dotata di armi ad alta tecnologia fornitele soprattutto da Usa, Gran Bretagna e Polonia».


Come finirà il conflitto?
«La Russia non può invadere tutta l’Ucraina e tenere il punto. Può però conquistare tutto il Donbass, e presentare questo a sé stessa come una vittoria».

E a quel punto?
«La trasformazione del Donbass in una sorta di Stato ad autonomia limitata, fuori dalla Nato e dall’Europa, era una soluzione possibile prima della guerra, ma forse oggi nessuno la accetterebbe. Se Mosca conquistasse il Donbass, poi sarebbe portata a bluffare, porterebbe la guerra nel cuore dell’Ucraina, fingendo di avere le forze per prenderla, ma la Nato non potrebbe accettarlo, né sarebbe pensabile una divisione del Paese in due».


Lo stallo è diplomatico ancora più che militare. Dario Fabbri non crede in soluzioni nel breve periodo, «perché non basterebbe neppure l’uscita di scena di Putin, visto che i russi lo sostituirebbero con uno simile a lui». L’errore che facciamo noi occidentali è non capire che il presidente è vicinissimo al sentire del suo popolo, incarna il pensiero del cittadino medio. Lui invece lo sa benissimo. «Infatti quello che resterà del suo discorso nello stadio, la settimana scorsa, è la consacrazione della guerra in Ucraina come una battaglia esistenziale per la Russia, o si vince osi muore. Se c’è un eroico orgoglio ucraino, ce n’è anche uno russo, perché Mosca non accetta mai la sconfitta». Anche per questo, secondo il direttore della rivista di geopolitica Domino, un successo editoriale fondato su competenza, autorevolezza, libertà di pensiero e lucidità di analisi, «il conflitto ucraino non era evitabile, sarebbe comunque esploso prima o poi, perché arriva da lontano, dalla disgregazione dell’impero sovietico e dalla conseguente insicurezza di Mosca, una costante della storia russa, che sente il bisogno di Stati cuscinetto per proteggersi».


Si dice anche che Mosca sia stata provocata dalla Nato, che si è spinta fino ai suoi confini...
«Ma la Nato non si è imposta, ci sono state adesioni spontanee di Paesi che volevano uscire dalla sfera d’influenza russa».

Allora anche per l’Occidente, come per la Russia, questo conflitto è una guerra esistenziale?
«Peri Paesi dell’Est, che sanno cosa significa stare sotto il tacco di Mosca, per la Gran Bretagna, che ha una rivalità secolare con la Russia e ambisce al ruolo di nazione faro nel Nord Europa, e per gli Stati Uniti, che vedono minacciata la loro leadership nel vecchio continente, lo è. Ma per noi, la Francia o la Germania, questa resta una guerra lontanissima».


La tesi di chi tifa pace è, per dirla con Berlusconi, che l’Occidente abbia sbagliato a perdersi per strada la Russia e lasciarla alla Cina...
«Pratica di Mare fu un successo vent’anni fa ma l’idea che la animava era utopica. Putin e Bush si misero a tavola insieme per prendere tempo. Mosca era debolissima e Washington era impegnata su altri fronti».

Quindi Usa e Russia sono destinate a essere nemiche per sempre?
«Non è detto. In teoria dialogare converrebbe a entrambe, visto l’incombere del gigante cinese. A Mosca converrebbe avere rapporti di amicizia con gli Usa. Se sei costretto a scegliere tra due potenze egemoni, è sempre meglio essere alleati della potenza più lontana geograficamente. Nel 1971 Kissinger si recò in gran segreto a Pechino, da Mao, strinse un’alleanza economia e strategica e gli Usa vinsero la guerra fredda con l’Urss».

Oggi Washington dovrebbe ripetere la mossa a ruoli invertiti, con la Russia in quello della Cina?
«Gli americani sanno che, se hai due nemici, devi dividere il campo e portare con te il più debole per schierarlo contro il più forte, solo che non sanno come fare ad aprire alla Russia, anche perché è una nazione molto vasta, con una forte identità e dotata del più grande arsenale atomico: tenderebbe di continuo ad affrancarsi e agire fuori dagli schemi prestabiliti. Speravano che la guerra avrebbe indebolito Mosca al punto da spingerla verso di loro, ma qualcosa sta andando storto».

Inserirla nella gabbia europea sarebbe una soluzione?
«Anche a prescindere dal fatto che l’Unione Europea non è uno Stato, e neppure una federazione, non avendo unità politica né militare, Mosca non sarebbe inseribile in un contesto simile, perché diventerebbe subito una minaccia. Sfatiamo il mito che la Russia sia anzitutto Europa. I russi non si sentono soltanto europei. Sanno di avere un piede in Occidente ma sono fieri della propria alterità culturale, consci di aver rielaborato i nostri valori per diventare qualcosa di unico, al quale non vogliono rinunciare».

Che ruolo può avere la Ue nel conflitto?
«Un ruolo minore. Non ha un popolo né un vero esercito. Applica sanzioni, ha fatto l’embargo sul petrolio russo, misure di ispirazione anzitutto americana, ma quando si tratta di questioni di vita o di morte...».

Giudizio spietato...
«Non è neppure colpa sua, ma della narrazione che le attribuiamo. La guerra è stata la cartina di tornasole della pochezza geopolitica dell’Europa».

E l’Italia?
«Facciamo quello che possiamo per far passare la nottata. Escludendo ovviamente gli ucraini, che subiscono la guerra sulla loro pelle, Roma, con Berlino, è la nazione più colpita dalla crisi in corso, perché è costretta a rivedere il proprio sistema Paese, che era basato su una manifattura eccezionale, che esportava anche a Mosca e Pechino, retta dal gas russo comprato sotto costo che conteneva i prezzi di produzione. Una situazione che non tornerà più, né per le materie prime né per l’export».

La guerra è destinata ad allargarsi ad altri fronti?
«Non si può escludere. Attualmente non c’è il rischio di una terza guerra mondiale, ma le cose possono cambiare in fretta. Il mondo non si rese conto che dall’assassinio di Sarajevo sarebbe nata la prima guerra mondiale e dall’invasione della Polonia sarebbe scaturita la seconda. Per ora abbiamo il più grande arsenale atomico del pianeta in guerra con un Paese difeso dagli Usa, con la Cina che guarda e pensa a Taiwan».

Pechino attaccherà Taiwan?
«Se potesse conquistarla, lo avrebbe già fatto. Forse tra qualche tempo».


Ma sono un miliardo e mezzo di persone contro 23 milioni, distanti solo 160 chilometri dalle coste cinesi...
«In realtà parliamo di un’isola armata fino ai denti e difesa anche dalle portaerei americane, che non potrebbero stare a guardare in caso di attacco, perché per Washington significherebbe rinunciare al ruolo che si è data nel mondo. A quel punto sì che scoppierebbe la Terza Guerra Mondiale. Pechino si è data il 2049, il centenario dalla rivoluzione maoista, per riportare l’isola alla madrepatria».

La Cina è destinata a diventare a breve la più grande potenza al mondo?

«Per meno, anche se ha già una flotta più numerosa di quella americana. Pechino ha troppe criticità interne, a iniziare da una popolazione in inarrestabile invecchiamento a causa della politica del figlio unico, portata avanti per troppi decenni e rinnegata tardivamente. Una popolazione anziana fatica a fare la guerra. E poi ha troppe contraddizioni, a iniziare dal divario tra città della costa ricche e campagne povere, che la porta ciclicamente ad aprirsi, per crescere, ma poi a chiudersi improvvisamente per evitare rivoluzioni interne».

Troverà l’equilibro con gli Usa che la. Russia non è mai riuscita a trovare?

«Il boom cinese è figlio di un equilibrio mondiale creato dagli Stati Uniti, che si sono tenuti il dominio dei mari e delle vie del commercio e hanno fatto dei cinesi i produttori del mondo. Questa in sintesi è stata la globalizzazione. Ora Washington vuole riportare in patria una parte della produzione e dirottarne un’altra nel Sud-Est asiatico, ma Pechino non ci sta e questo aumenta ulteriormente le tensioni».

Cosa ci attende?

«Il quadro è complicato, sempre più policentrico. Gli Usa mantengono un ruolo guida, lo si è visto nella risoluzione contro la Russia che hanno fatto votare all’Onu. Ma sempre lì si è visto che Mosca non è isolata. Contro Putin non hanno votato potenze come Cina, Iran, Sud Africa, India, Pakistan qualcosa come tre miliardi e mezzo di persone su una popolazione mondiale di sette e mezzo». 

 

 

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