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Adriano Galliani confessa il sequestro di persona: "Alla fine si è arreso"

Daniele Dell'Orco
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Con l’incipit del suo libro autobiografico (“Le memorie di Adriano G., storia di una passione infinita”, edito da Piemme) Adriano Galliani sceglie di affidare alla penna sopraffina di Luigi Garlando il compito di risolvere lesto il dubbio amletico di molti: il suo più profondo innamoramento calcistico. Nei venticinque anni di carriera da “Condor” del Milan di superstelle ne ha accalappiate molte. Anche perché, prima di essere dirigente dei rossoneri è stato supertifoso, non d’infanzia (a Monza «che non vuole essere e non è la banlieu di Milano» per emanciparsi si tifava Juve) ma di vocazione. Anzi, prima ancora è stato un ragazzino tarantolato da una passione: lo sport. Il ciclismo, il tennis, ovviamente il calcio.

Al Milan ha inventato un concetto: quello dei superteam. In Italia se n’erano visti alcuni: il Grande Torino, l’Inter di Herrera, varie stagioni di Juve, ma il Milan di Silvio Berlusconi, Adriano Galliani e Arrigo Sacchi in panchina è stato il primo grande superteam moderno, fatto di stelle non solo in campo ma anche fuori, personaggi straordinari, calamite per sponsor. Insomma, i Lakers di Magic e Kareem applicati al calcio. Come scegliere il top tra i top? Galliani lo fa, ed è un gesto coraggioso: «Sono troppi i campioni che hanno contribuito a scrivere la nostra storia. Ma se devo sceglierne uno solo da staccare sugli altri, il più grande di tutti i miei venticinque anni in rossonero, non ho il minimo dubbio. Non ne ho mai avuti: Marco Van Basten da Utrecht». L’icona più potente e più luminosa, la definisce.

COMING OUT
Dopo il coming out, però, Galliani (il suo idolo d’infanzia era la Saeta Rubia Di Stefano) riparte dall’inizio, e in un certo senso anche dalla fine. L’amore per il Monza, riesploso dopo la fine del trentennio rossonero, ma in realtà mai sopito perché legato, probabilmente fuso, a quello per la sua Venere: la mamma Annamaria. «Morì nel 1959, avevo 14 anni. Il giorno dopo papà mi disse: “Adriano, vai pure. La mamma è contenta se vai a tifare per il Monza”». L’ha messo al mondo letteralmente sotto le bombe, il 30 luglio 1944, mentre gli inglesi sganciavano morte sui capannoni della Falck e della Breda di Sesto San Giovanni che fabbricavano armi. E gli ha trasmesso oltre che la passione per il Monza anche quella per l’impresa. Era una self-made woman quando il femminismo non era nemmeno concepito. Gestiva un’azienda di trasporti Monza-Milano che fu poi il grande cordone ombelicale di Galliani. Il papà invece era segretario comunale, e da lui Adriano prese la voglia di tentare l’avventura nelle amministrazioni locali.

Finché il viatico di mamma Annamaria non prese il sopravvento: «Aprii uno stabilimento balneare a Vieste, sul Gargano; servivo Campari. Poi divenni socio di un’azienda, Elettronica Industriale, e alla fine la comprai», in modo davvero rocambolesco, facendo una “colletta” che oggi quelli bravi chiamerebbero crowdfunding. La storia di Galliani è quella di un’Italia in cui era davvero tutto possibile («le banche i soldi li prestavano»), le buone idee erano infinite e le sinergie saltavano fuori. Tipo quella con un signore che nell’impresa di Galliani vide la gallina dalle uova d’oro. Il partner perfetto per rivoluzionare il sistema mediatico italiano: «Al primo incontro a Villa San Martino Berlusconi mi chiese che orientamento politico avessi. Risposi la verità: “Mio padre diceva che i comunisti mangiano i bambini, e io mi sono fermato lì”. Berlusconi si alzò, venne verso di me, pensai di aver fatto una gaffe. Invece mi abbraccia e mi fa: anche il mio papà diceva così!”».

La joint-venture nacque con un abbraccio. Galliani metteva i ripetitori, Berlusconi le tv. Voleva creare i tre canali nazionali per combattere ad armi pari contro la Rai. I termini bellici non sono casuali: «Loro hanno tre cannoni. Dobbiamo averli anche noi», disse. Galliani però non era granché convinto: «Non era possibile: per la legge poteva averne solo una regionale. Lui fu secco: “Lei faccia il tecnico e mi dica: la sua azienda può realizzare il mio progetto?”. Risposi di sì». E il resto è storia. Ma se da allora Galliani si legò a Berlusconi da un atto di fede, lo stesso accadde a parti inverse quando Adriano contagiò Silvio con la malattia del pallone: «Lavoreremo insieme ma se io sono a Trieste e il Monza gioca a Catania, io devo andare a Catania».

Poco dopo, comprarono il Milan: «Era il Capodanno 1986. Sono in vacanza nella villa del presidente a St. Moritz, con Confalonieri e Dell’Utri. Fa un freddo tremendo, usciamo imbacuccati per andare a prendere l’aperitivo al Palace e incrociamo il clan Agnelli: l’Avvocato con la camicia aperta, Montezemolo con il ciuffo, Jas Gawronski elegantissimo, forse Malagò. Al confronto noi sembravamo Totò e Peppino. Condividiamo il tavolo. Alla fine Berlusconi ci dice: “Potremo fare anche noi grandi cose, ma non saremo mai come loro. Ci mancano venti centimetri di statura e il coraggio di esporre il petto villoso sottozero”. Qualche giorno dopo ci propose di prendere il Milan».

TREPPIEDI
Nel libro Galliani racconta come il binomio divenne un treppiedi: «Sacchi stava per andare alla Fiorentina. Lo intercettammo per strada. Quasi impossibile, nell’era pre-telefonini. Accettò di firmare in bianco. Io scrissi 300 milioni, meno di quello che prendeva in B al Parma. Lui pose una condizione: a ogni trofeo me li raddoppiate. L’anno dopo vinse lo scudetto, l’anno dopo ancora la Coppa dei Campioni. Faceva un miliardo e 200 milioni. Che fui felice di pagargli». La prima mossa del Condor. Da lì in poi fu tutto in discesa. Nel 1989 il Milan vinse la prima Coppa dei Campioni, contro lo Steaua Bucarest. In quell’anno il mondo cambiò per sempre e probabilmente anche il calcio italiano: «C’erano ancora Ceausescu e il Muro di Berlino. A Bucarest rastrellammo anche i loro biglietti, il Camp Nou era tutto rossonero. Portammo a Barcellona l’intero calcio italiano e mezza politica su un Jumbo. Era un’altra Italia». Un altro colpo di mercato simbolico, prima in campo e poi in panchina, fu Ancelotti: «Il presidente della Roma Viola mi disse: vada al residence Velabro alle 22, camera 212, e troverà Ancelotti.

Il portiere pensò a un appuntamento equivoco. L’accordo c’era, ma quando il medico del Milan vide gli esami disse: c’è un errore, queste non sono le gambe di un calciatore ma di un anziano. Invece erano proprio le ginocchia di Ancelotti. Lo prendemmo lo stesso, e fece ancora stagioni meravigliose». Ma le storie di grandi operazioni di mercato sono pressoché infinite: Boban («Andammo al ristorante con il padre, un colonnello croato, Marinko, uomo d’ordine. Avevamo davanti una bottiglia di San Pellegrino, e ogni volta lui la ruotava. Gli chiesi perché. “Perché non sopporto di vedere una stella rossa”, rispose»), Shevchenko («Lo vidi a Kiev, con un freddo terribile e le prostitute che tentavano di entrare in camera. Dormii con il cappotto e con una cassapanca contro la porta. Passai la notte al telefono con la donna di cui ero innamorato (la giornalista Manuela Moreno, ndr)»), Ibra («Mi piazzai nel salotto di casa: non me ne vado finché

DAI CAMPARI ALL’ELETTRONICA
Alla fine il viatico di mamma prese il sopravvento: «Aprii uno stabilimento balneare a Vieste, sul Gargano; servivo Campari. Poi divenni socio di un’azienda, Elettronica Industriale, e alla fine la comprai», peraltro in modo davvero rocambolesco, facendo una sorta di “colletta” che oggi si chiamerebbe “crowdfunding” non firmi. Restai tutto il giorno. La moglie mi guardava come un pazzo: ma questo chi diavolo è? E Ibra: “È Galliani del Milan, dice che non se ne va finché non firmo”»), Ronaldo («Faceva la scarpetta nel vassoio degli spaghetti al pomodoro. Ancelotti lo prendeva in giro: Fenomeno, almeno sai chi ti marca domani? E lui: io no, ma lui sa che deve marcare Ronaldo»), Beckham («Ragazzo umile. Restituiva al magazziniere la tuta ben piegata, diceva che nelle giovanili del Manchester gli avevano insegnato così»).

In mezzo a tanti colpi da maestro, la tragedia sportiva della finale di Istanbul. Il Milan si fece rimontare tre gol in un tempo dal Liverpool e perse ai rigori. «Berlusconi non disse nulla. Dopo la partita restammo seduti più di mezz’ora in tribuna, senza dirci una parola. Avevamo perso, ma la squadra aveva dato il massimo. Si era arrabbiato molto di più dopo uno 0-0 con il Celta Vigo in cui non avevamo tirato in porta, riempì me e Capello di improperi. Il bel gioco prima di tutto».

RINGHIO
Qualcuno il tracollo non lo accettò. Come Rino Gattuso: «”Ogni volta che indosserò la maglia del Milan, mi tornerà dentro il dolore di Istanbul e io non riesco a sopportarlo, mi spiace. L’unico modo per lasciarmelo alle spalle è togliermi quella maglia, andarmene. Mi lasci partire, Galliani”. È venuto a dirmelo una volta, due, alla terza si è presentato in sede accompagnato dal padre. Li ho portati nella sala dei trofei, abbiamo discusso a lungo, gli ho ribadito che non l’avrei lasciato partire, mi sono alzato dal tavolo e gli ho detto: “Ascolta, Rino. Adesso ti chiudo qui dentro a riflettere. Ti libererò solo quando mi avrai detto: ok, resto”. E così ho fatto. L’ho chiuso a chiave nella sala dei trofei. L’ho sequestrato, come ha fatto don Rodrigo con Lucia nei Promessi sposi. Dopo un’ora, ho messo dentro la testa: “Hai cambiato idea? ” “No”. Ho richiuso la porta.

Questo giochino è durato almeno 5-6 ore, con il consenso del padre Franco, naturalmente. All’ora di pranzo gli ho fatto portare due panini e ho richiuso immediatamente la porta per paura che scappasse. Ringhio in gabbia. Ha divorato il pasto circondato dai gloriosi metalli di casa, masticava e intanto gli entrava in corpo tutta la grandezza della nostra storia. Alla fine, si è arreso. Ho aperto la porta e mi ha detto: “Va bene, resto al Milan”». Nel rapporto idilliaco con Berlusconi l’unico screzio, per modo di dire, fu per la politica: «Zaccheroni venne esonerato nel marzo 2001 dopo l’eliminazione in Champions League con il Deportivo La Coruna. In panchina andarono Cesare Maldini e Mauro Tassotti che diressero il derby vinto 6-0. Si giocò di venerdì, due giorni prima delle elezioni politiche del 13 maggio.

Al Collegio 1 di Milano, per il centro-destra, era candidato Silvio Berlusconi e per il centro-sinistra Gianni Rivera. Notoriamente chi abita nella prima cerchia dei Navigli è interista, perché storicamente i ricchi di Milano sono interisti e i meno ricchi sono milanisti. Per la prima e unica volta in vita mia, ho ricevuto una telefonata di rimprovero da Berlusconi dopo una partita vinta: “Adriano, domenica ci sono le elezioni a Milano 1! Non potevate fermarvi sul 3 o 4 a zero?”. “Fermarci? Se avessi potuto segnarne 9 o 10, avrei goduto come un riccio!”. Il presidente si è messo a ridere e ha dimenticato le elezioni che comunque avrebbe vinto con il 53% doppiando quasi Gianni Rivera, leggenda rossonera». Prima degli ultimi anni di purgatorio rossonero con la diarchia gestionale con Barbara Berlusconi, Galliani ebbe tempo di sfornare l’ultimo pallone d’oro frutto della serie A: Kakà. Era il 2007.

Oggi quel mondo dorato del calcio italiano è sparito anche se ci sono tre italiane nelle finali europee: «La Premier fattura quattro volte più della serie A. I rapporti di forza sono troppo sbilanciati». Come lo erano a nostro favore ai tempi loro, del resto. La rivoluzione ora parla inglese. Galliani e Berlusconi però un altro miracolo l’hanno fatto, portando il Monza per la prima volta nella massima serie ed esaurendo il sogno di mamma Annamaria: «Alle 23.12 del 29 maggio 2022 a Pisa conquistammo la promozione. Due minuti dopo ricevo questo whatsapp “Sono molto contento per lei dottore e per il presidente, Sinisa Mihajlovic”». L’uomo che presero al Milan al posto di Sarri e che scoprì Gigio Donnarumma. Ora, il Monza, sogna l’Europa. Galliani però le partite continua a non vederle: «Scappo dallo stadio all’intervallo e rifugiandomi nel Duomo di Monza, a cellulare spento. Esco solo dopo il fischio finale». Per il Condor, un ansiolitico naturale.

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