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Alain Elkann ha ragione: la maleducazione è figlia del '68

Andrea Morigi
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Il dibattito sull'articolo sui "giovani lanzichenecchi" scritto da Alain Elkann su Repubblica. Botta e risposta tra Giovanni Sallusti e Andrea Morigi. Clicca qui per leggere il commento di Giovanni Sallusti

Villani. Poiché non si può più dire e tantomeno scrivere, Alain Elkann ha descritto i suoi compagni di viaggio come “lanzichenecchi”. Lo hanno insultato tutti, dalla destra cafona (esiste nella misura in cui si adegua all’immagine che ne propaganda la sinistra) piena di livore nei confronti degli intellettuali che schifano il popolo, fino alla sinistra massimalista, quella convinta che la rivoluzione coincida con la corruzione dei costumi. Gli si è rivoltato contro, come una novella Inquisizione laica, il comitato di redazione del quotidiano La Repubblica, che fa notare innanzitutto di essere un giornale «identitario» e vicino ai diritti dei più deboli, prima di proclamare: «Ci dissociamo dai contenuti classisti» dello scritto.

Confesso che ho provato a sondare il terreno in una chat con gli amici del sindacato dei giornalisti per capire il motivo di tanta repulsione. Una delle sue più battagliere esponenti mi replica che l’autore dell’articolo ha avuto il privilegio della pubblicazione soltanto in quanto padre dell’editore, il presidente di Gedi John Elkann. A parte il fatto che ha anche altri due figli, dei quali uno notoriamente più propenso al libertinaggio, l’articolo conteneva una notizia degna di essere stampata sulla carta, tant’è che da due giorni non si parla d’altro anche sui social: circolano sui treni e bivaccano nelle spiagge personaggi che non riconoscono valore alle regole del vivere civile, sono abbandonati ai loro più bassi istinti e questo fenomeno si chiama de-civilizzazione.

 

In Francia, ma anche in Svezia, i giovani delle banlieue spaccano tutto. Qui in Italia invece sembrano votati alla volgarità e non sembrano sensibili agli squilli di rivolta. S’interessano di calcio e conquiste femminili, si tatuano come in una tribù di selvaggi, ma non mostrano altri interessi culturali. Non c’è da sorprendersi se i compagni li difendono: è il ’68, con la rivolta contro l’educazione borghese, la causa dell’abbandono delle regole del vivere civile. Peccato che quell’attaccamento alle virtù fosse soltanto il residuo perbenista di un’educazione cristiana. Eppure, si chiede il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre: dopo le virtù, cosa rimane se non l’emozione elevata a metro di giudizio? Elkann, che cristiano non lo è, ha respirato l’atmosfera della civiltà europea, ne vede il declino, ne racconta la decadenza, è un testimone consapevole del suo tempo. 

Forse il suo leggere Proust è anche un appello a recuperare il tempo perduto. Andrebbe accolto, da destra, come un invito a una restaurazione dei principi fondamentali che sostengono la convivenza sociale. Il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, che considerava la cortesia una virtù contro-rivoluzionaria in grado di ricostruire sulle rovine, indicava come un traguardo del superamento della vita selvatica, il fatto che «certi animali, per esempio gatti d’Angora o volpini di Pomerania, acquistano una certa distinzione evidentemente affine agli ambienti umani in cui vivono». 

 

Non è un caso se ora si diffondono razze aggressive come i pitbull. Santa Francesca Cabrini. che fra la fine del 1800 e l’inizio del secolo scorso aveva assistito i migranti italiani in America, si era convinta che l’educazione è mezza santità. Convertire alle buone maniere significa creare le condizioni culturali per ricostruire una civiltà cristiana. Ma è vero anche che i monaci benedettini non sarebbero riusciti a fondare l’Europa se non avessero spiegato ai barbari come si stava a tavola e anche a non gridare: “Non sit clamosus in voce”, recita la regola di San Benedetto. Esattamente il contrario del vociare di quei viaggiatori incrociati da Elkann sulla linea ferroviaria fra Roma e Foggia.

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