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Arianna Meloni, la querela con cui smaschera Travaglio: fango e ipocrisia

Renato Farina
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Ieri in prima pagina Il Fatto quotidiano si è concesso il lusso di un frignante auto scoop. «Arianna Meloni querela Il Fatto per una vignetta», questo il titolo. Aveva la notizia in esclusiva, e l’ha francamente un po’ sciupata. Neanche un po’ di orgoglio, nessun friccico di felicità per aver sfregiato la parente di due nemici politici. Due! Filotto e buca. Arianna non ha cariche pubbliche ma è pur sempre la sorella della premier Giorgia, ed è la sposa del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Colpendo una ne artigli due. E bravi Mario Natangelo e il suo direttore Marco Travaglio.

La loro opera è stato un pregevole plagio minimalista dell’antica tecnica delle vendette trasversali di Cosa Nostra e delle Brigate Rosse, prendersela con fratelli, figli e cugini (vedi Masino Buscetta e Patrizio Peci). Procurare dolore, non versando sangue – e ci mancherebbe – ma attentando alla reputazione. E minimizzando, spiegando che non è successo nulla, un po’ di savoir vivre, non ci si comporta così, addirittura querelando, si deve incassare e tacere, anche se ti trattano come una moglie e madre che invita un tizio qualsiasi, nel caso un africano, a infilarsi nel tuo letto, che sarà mai?

 

 

 

L’ORDINE DI SCUDERIA

L’ordine di scuderia del Fatto e dei loro compari di casta o di cosca era stato subito diffuso e applicato sin dall’uscita, il 20 aprile scorso, dinanzi all’ovvio disgusto di chi ritiene che «il limite della satira sia la sofferenza» (Pablo Echaurren). Nessuna scusa, l’interessata e chi si indigna è ipocrita, non capisce l’alto significato morale di quel disegnino banalmente lubrico e deturpante l’immagine di una persona perbene. Dinanzi all’ovvia ipotesi che la vittima volesse regolare la faccenda per via di giustizia, si fece scattare l’esimente stantia: ma è satira, la quale è diritto assoluto, che vergogna sarebbe querelare una vignetta. Innocua satira. Si aggiunge che il bersaglio atto a suscitare una risatina non era neppure la signora Arianna ma il marito ministro.

Ecco come il Fatto ha circoscritto l’accaduto: «La vignetta trattava della “sostituzione etnica”». Punto. Finita la prima pagina. Questo linguaggio è un depistaggio. È l’equivalente della battuta, in piena guerra di mafia, che «il grande problema di Palermo è il traffico» (in Johnny Stecchino, 1991). Il guaio è che i siti internet più diffusi assecondano a pappagallo questo riduzionismo peloso. Il titolo del Corriere della Sera è: «Arianna Meloni sporge querela per la vignetta sulla “sostituzione etnica”». La Repubblica invece: «Arianna Meloni sporge querela per la vignetta sulla sostituzione etnica». Notata la differenza? Il quotidiano degli Agnelli toglie le virgolette usate dai più compassati concorrenti. Fantasia al potere, guizzi di creatività. Ma idem fanno Sky Tg24, Open, Agenzia Dire.

Il Comitato di Redazione (o forse di Rieducazione del popolo bue) de Il Fatto arriva a individuare il pericolo non nel trattare la gente come merce da dileggio e risata sconcia, ma nel diritto dell’offeso di trovare scudo e rimedio nella giustizia. Scrivono con indignazione contro la vittima: «Decisione grottesca e pericolosa». E, pretendendo immunità, lisciano il pelo a pm e a giudici considerati gente di casa: «Siamo sicuri che la magistratura escluderà qualsiasi reato. A Natangelo va tutta la solidarietà dei colleghi del Fatto Quotidiano. Non ci faremo certo intimidire da questa incredibile iniziativa». Il mondo capovolto. Beppe Giulietti sul blog del Fatto quotidiano, e fino a pochi mesi fa segretario del sindacato unico dei giornalisti (Fnsi), scrive che andrebbe punita Arianna Meloni: «Nessuno pagherà per questo ennesimo sfregio all’articolo 21 della Costituzione. Per questo si chiamano querele bavaglio: hanno il solo scopo di intimidire». Insiste: «L’annunciata denuncia contro Natangelo segue quelle già scagliate contro Roberto Saviano, contro il Fatto, contro Domani, contro Report..., una vera e propria sequela di atti di arroganza e intolleranza». Ah sì? Cioè: se Arianna querela il Fatto (Natangelo e il direttore Travaglio), se Giorgia non ritira la denuncia contro Saviano che la chiama «bastarda», si tratta di intimidazione. Se a rivolgersi ai tribunali sono invece Saviano e Travaglio va tutto bene? Perché sì, anche lor signorini, timidi pulcini, lo fanno eccome se lo fanno.

 

 

 

IL REUCCIO E LO ZAR

Saviano è il reuccio delle querele. Ne ricordiamo una per gli enormi danni causati al querelato, non proprio un vip. In un articolo del 2008 l'autore di Gomorra scrisse di una telefonata avuta con la mamma di Peppino Impastato. Paolo Persichetti, all’epoca cronista di Liberazione, la mise in dubbio, con ragione, e per questo fu querelato nel 2010. Nell’attesa della sentenza, il cronista – ex brigatista - fu rimesso in cella per due anni, gli furono tolti i permessi e rimosso dal quotidiano comunista. Ha detto Persichetti: Saviano «ha sempre rivendicato per sé quello che nega agli altri», si sente «il testimone della verità», «l’incarnazione del vero» e «gli altri per forza di cosa sono altro dal vero e chi lo critica e non la pensa come lui un ostacolo alla verità». E Travaglio? Se Saviano è il reuccio, Travaglio è lo zar dei risarcimenti per sé e al diavolo gli altri.

Ha scritto Filippo Facci su Libero di otto anni fa: «Il collega Marco Travaglio e il suo avvocato Caterina Malavenda hanno querelato la bellezza di 49 articoli del Giornale tutti insieme, più altri dei siti Dagospia e Macchianera: e cioè 27 articoli miei, 3 di Gian Marco Chiocci, 3 di Maria Giovanna Maglie, 2 di Alessandro Sallusti, 2 di Mario Giordano, 2 di Paolo Bracalini, 2 di Paolo Granzotto, più 1 a cranio scritti da Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi, Alessandro Caprettini, Francesco Cramer, Renato Farina, Cristiano Gatti, Gianni Pennacchi (che al momento della querela era morto da due anni) più la missiva di un lettore, Renato Niccodemo. Ho scritto “querelato” per comodità, ma era una causa civile (che punta direttamente ai soldi) la quale il 14 febbraio 2011 è stata intentata principalmente al Giornale e che mirava a 400mila euro di risarcimento più la pubblicazione della sentenza su tre quotidiani, a caratteri doppi del normale». Niente da fare. Gli andò male, ma resta un bel record di intimidazione, vero Beppe Giulietti? 

 

 

 

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