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Israele, David Meghnagi avverte l'Occidente: "L'unico modo per salvarsi dalla distruzione"

Maurizio Stefanini
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L’attacco di Hamas e la storia dell’antisemitismo: ne parliamo con David Meghnagi. Membro della comunità ebraica romana ma nato a Tripoli, è ideatore e direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah presso l’Ateneo di Roma Tre, all’interno del quale dirige un progetto di catalogazione della musica concentrazionaria. Professore di Psicologia Clinica, Psicologia dinamica e Psicologia presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, docente di Psicologia della Religione e di Pensiero Ebraico al Master Internazionale in Scienza della Religione di Roma Tre, è stato Vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e delegato per l’Italia presso la Conferenza dell’Osce contro l’antisemitismo.

Il 9 ottobre era l’anniversario dell’attentato in cui morì Stefano Tachè. Il 16 ottobre sono 80 anni dal rastrellamento del ghetto di Roma. Hamas ha attaccato il 7 ottobre. La guerra del Kippur iniziò con un attacco il 6 ottobre. È solo una coincidenza, questa vicinanza di date?
«L’attacco era in preparazione da anni e il pericolo è stato ampiamente sottovalutato. La scelta della data aveva un valore di richiamo simbolico e identitario. Per Hamas e perla Jihad islamica la guerra conto Israele ha come obiettivo un sollevazione generale del mondo islamico contro Israele, gli ebrei e l’Occidente. La strage di Charlie Hebdo e i ripetuti attacchi contro le istituzioni ebraiche e i cittadini di confessione ebraica in Francia, la persecuzione dei cristiani in alcuni Paesi africani e asiatici, la loro fuga dal Vicino Oriente sono tutti elementi di un mosaico complesso che ha come collante l’odio contro la civiltà occidentale e contro Israele. Nella visione dell’islam radicale, i regimi arabi disponibili al dialogo con Israele e con l’Occidente, sono da considerarsi regimi eretici da sradicare con l’obiettivo di ricostruire il califfato. Basta leggere Qutb e Hassan Al Banna. L’obiettivo è la ricostruzione del califfato e la riconquista violenta di tutti i territori che sono stati sotto controllo islamico. In questa logica la colpa degli ebrei è di essersi ribellati a uno status di “inferiorità”. Basta pensare a quel che è accaduto alle minoranze yazide e cristiane sotto l’Isis».

Lei ha definito l’antisemitismo come un virus che minaccia ancora Italia e Europa.
«L’antisemitismo è una realtà profondamente radicata nella storia religiosa, politica e culturale che va combattuto con l’educazione, la memoria del passato e la costruzione di una società democratica fondata sul rispetto. Lo si combatte lavorando sui simboli profondi della cultura, sviluppando la reciproca conoscenza. Il dialogo ebraico-cristiano ha conosciuto importanti sviluppo e progressi al riguardo. Da “perfidi giudei” gli ebrei sono diventati “fratelli maggiori”, cari a Dio. Il grande pericolo è quando l’antisemitismo diventa il motore di un progetto politico totalitario. La carta di Hamas come del resto altri documenti della Jihad sono espliciti al riguardo. Il libello zarista del “complotto ebraico dei Savi di Sion”, da cui ha preso ispirazione Hitler quando ha redatto il Mein Kampf, è considerato vero».

Da psicoanalista, come valuta l’antisemitismo?
«L’antisemitismo ha molti aspetti e facce che ho studiato per oltre cinque decenni. Sul piano psicologico nell’odio contro gli ebrei c’è un grande odio di sé proiettato sugli ebrei. Gli ebrei sono un capro espiatorio ideale su cui dirigere le frustrazioni irrisolta di una società. Si comincia con gli ebrei, poi si finisce con gli altri».

Altra cosa che si sta sovrapponendo: no Vax, appoggio a Putin, appoggio a Hamas. Come mai?
«La cultura del complottismo si muove ovunque con la medesima logica. La realtà complessa del mondo, fa posto a semplificazioni inossidabili e inattaccabili. Il mondo si riempie di demoni invisibili che devono essere materializzati. L’odio per la democrazia parlamentare, va di pari passo con l’attrazione dei regimi autoritari che hanno maggiore facilità a penetrare le piattaforme digitali per alimentare la paura. Non è un caso che la demonizzazione dei vaccini sia stata utilizzata contro gli ebrei e contro il sistema democratico parlamentare. La cosa grave è che i media per ragioni di audience e venendo spesso meno alle loro funzioni abbiano contribuito ad alimentare il processo».

Che errori ha fatto Israele?
«Negli ultimi due anni la società israeliana è stata attraversata da una grave crisi politica che ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone. Con un atto di imperio si è tentato di mettere mano alla Legge fondamentale dello Stato con una maggioranza risicata. La grave crisi che ne è derivata, di cui il governo porta una grande responsabilità morale e politica, ha indebolito profondamente il Paese. Hamas, che da tempo si preparava a un attacco omicida su vasta scala, ha pensato che era il momento di colpire. Nella prospettiva di Hamas, uccidere il più alto numero di ebrei secondo modalità che ricordano i nazisti, ha un valore politico, religioso e simbolico. Dietro Hamas c’è l’Iran che controlla anche Hezbollah.
A nord ci sono circa 150.000 missili puntati su ogni luogo del Paese. Se la guerra dovesse allargarsi all’Iran e ai suoi proxis si possono immaginare gli effetti. L’Arabia Saudita ha in parte rimesso in discussione gli accordi di Abramo, la Turchia minaccia nemmeno tanto segretamente, le milizie islamiste cecene si dicono disponibili ad intervenire. Per non parlare della crisi che investirebbe i Paesi arabi. Se Israele si ritirasse, subendo l’onta, significherà che tutto si potrà si ripetere all’infinito. In questa situazione l’ambiguità di alcuni settori della cultura europea apre la strada al declino totale dell’Europa. L’esistenza di Israele, la sua sicurezza, è condizione perla composizione dei conflitti che lacerano la regione. Senza Israele, l’Europa sarebbe destinata al tramonto. L’esistenza di Israele e la sua sicurezza, è la condizione perché il mondo arabo e islamico esca dal delirio politico in cui è avviluppato».

Lei è di origine libica. Secondo lei, perché nel dibattito si va sempre alla espulsione degli Arabi dalla Palestina e non alla contemporanea espulsione degli ebrei dai Paesi arabi?
«Una riflessione seria sulle persecuzioni, la fuga e le espulsioni degli ebrei dal mondo arabo, rimetterebbe in discussone l’intera narrazione della storia del conflitto arabo-israeliano.
Nella storia della mia comunità ci furono tre pogrom in 22 anni. Prima c’erano state le persecuzioni razziste. Un trauma cumulativo che non ha cancellato la capacità di immaginare e di sperare in un mondo diverso».

Antiebraismo, antisemitismo, antisionismo, critica a un governo israeliano. In teoria sono quattro cose differenti. È inevitabile che si mescolino?
«Il problema non riguarda il diritto alla critica, di cui in Israele tra l’altro si fa largo uso. In discussione è la demonizzazione, la delegittimazione il doppio standard. Laddove sono presenti questi elementi, siamo di fronte a degli indicatori che ci dicono che la critica nasconde altro».

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