Angelo Fabbrini, il maestro che rende i pianoforti perfetti
In una foto in bianco e nero Arturo Benedetti Michelangeli in piedi lo guarda mentre lui, seduto al pianoforte, studia come ottenere sonorità particolari dallo strumento. Uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi osservava con attenzione Angelo Fabbrini, che chiamava con rispetto e ammirazione «Maestro». Fabbrini, scritto in eleganti caratteri d’oro sulla sinuosa fiancata nero lucida del principe degli strumenti, è un logo conosciuto in tutto il mondo e nelle più prestigiose sale da concerto, inseparabile dai nomi più altisonanti del pianismo internazionale, passato e presente. È lì, marchio di qualità, a ricordare che i pianoforti nascono uguali ma poi crescono e diventano altro, fuoriserie tra le fuoriserie.
Angelo Fabbrini, classe 1934, è l’opposto di come te lo potresti aspettare: sempre garbato nei modi, la voce che è quasi un sussurro, una modestia come cifra delle relazioni interpersonali, del tutto immotivata considerato che è il re indiscusso dei preparatori di pianoforti. È stato lui a elevare l’artigianato dell’accordatura ad arte sublime di prendere una complessa creatura di legni stagionati, corde, metalli, listelle di avorio, molle di richiamo, feltri di smorzamento, e darle una voce unica e inconfondibile. I suoi pianoforti, non a caso, sono detti “della collezione Fabbrini”, a ribadirne esplicitamente la tipicità inimitabile. Sui contratti dei più celebrati virtuosi della tastiera non c’è clausola meno negoziabile del pianoforte griffato Fabbrini, e non c’è stato nessun grande del passato che non l’abbia voluto al suo fianco, perché lui era l’unico a saper personalizzare il suono e a calibrarne ogni sfumatura.
DA NEW YORK A TOKYO
Pesarese trapiantato da una vita a Pescara, ha cercato e ricercato ogni possibile caratteristica per esaltare i quarti di nobiltà del Gotha dei marchi più celebrati e di quello degli interpreti più applauditi. Sempre sotto i riflettori o dietro le quinte per magari apportare qualche modifica in corso d’opera tra il primo e il secondo tempo di un concerto, sempre in giro per il mondo per teatri, sale e auditorium, da New York a Tokyo, da Londra a Berlino, da Vienna a Milano, nonostante una vita frenetica nel segno dell’arte Angelo Fabbrini ha condotto in provincia una vita in sordina. Osannato all’estero, al di fuori dell’ambiente dei musicisti e del conservatorio assai meno noto nel luogo in cui aveva scelto di vivere e in cui ha coltivato il sogno rimasto sogno: creare una fabbrica di pianoforti.
Non gli bastavano i tappeti rossi stesi da Steinway e Bechstein al solo sentir pronunciare il suo nome, né che fosse abbinato a Benedetti Michelangeli, Maurizio Pollini, Nikita Magalov, Alexis Weissenberg, Martha Argerich, Krystian Zimerman, per arrivare all’istrionico fenomeno contemporaneo Lang Lang e senza dimenticare i grandi del jazz e neppure i giovani talenti e le speranze del pianismo. Perché suonare Ravel o Beethoven, Debussy o Chopin, Bach o Bartok, non è come suonare e far suonare Monk, Evans, Powell, Hankock, Jarreth, Corea. «Se l’artista è contento, vuol dire che il lavoro di accordatura e preparazione è stato fatto bene. Il difficile è intercettare il desiderio dell’artista, con la messa a punto. Ma occorre sempre dare il meglio». L’elenco della scuderia Fabbrini sarebbe lunghissimo.
Come il suo palmarès di premi e riconoscimenti, tra cui spicca l’Oscar del pianoforte attribuitogli da Steinway con la personalizzazione (con il suo nome) del D-247, il suo duecentesimo gran coda acquisito della casa madre: un record mondiale, da lui stesso superato oltre quota 230. Il D-247 è il suo amato Stradivari, da proteggere e coccolare, che centellina nelle esibizioni. Per lui, d’altronde, «ogni strumento ha un’anima, è una creatura». Comprò il primo pianoforte nel 1966 e non l’ha mai venduto, perché «contiene i miei ricordi e i miei settant’anni di lavoro». Ha tenuto masterclasses e ha inaugurato un canale di studio dal Giappone a Pescara, per stuoli di aspiranti preparatori con gli occhi a mandorla accolti dall’invito a mettere da parte le apparecchiature ultratecnologiche che spaccano in quattro le frequenze e cominciare a innamorarsi delle bellezza dei suoni da creare, con un rapporto emotivo diretto col pianoforte. Magia domata dal mestiere, tecnologia asservita alla sensibilità.
PASSAGGIO DI TESTIMONE
Dalla lezione paterna arriva la massima che «il 50-60% è orecchio, il 40-50% la mano», ma la preparazione è per lui indispensabile. «Sono il primo critico di me stesso - dice - perché non sono mai soddisfatto. Ogni volta è un esame». A suggello di una carriera inimitabile ha consegnato alla carta ricordi e aneddoti, con il libro La valigetta dell’accordatore. La ricerca del suono perduto scritto con Pietro Marincola, che per alcuni versi è anche l’ideale passaggio di testimone al figlio, così come l’aveva ricevuto dal padre Giulio assieme al fratello Vittorio, per una storia ultrasecolare che scolora nella leggenda. A Pescara si favoleggia ancora di una cerimonia segreta alle 5 del mattino nell’antica chiesa del Sacro Cuore, celebrata da don Manlio Maini, a sua volta musicista. C’era Arturo Benedetti Michelangeli, giunto dalla Svizzera in Ferrari, come padrino del figlio di Angelo Fabbrini al quale deve il suo nome di battesimo. Scritto nel destino.