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Street art? Non chiamatela arte: è fumettismo

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Luca Beatrice
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Certe forme d’arte durano nei secoli, altre connotano un particolare periodo della storia e poi si stemperano fino a estinguersi. È questo il caso della Street Art che, nonostante la gran quantità di soggetti che ancora la praticano, si è ridotta a ben poca cosa rispetto al tempo migliore, gli anni ’80. Allora uscirono pittori come Jean-Michel Basquiat e Keith Haring: i colori e i gesti talmente forti e originali da entrare pressoché subito nelle grandi gallerie e nei musei internazionali, oltre ad aver lasciato un solco profondo nella New York di fine XX secolo. Dalla metropolitana al Metropolitan, il passo fu breve.

Stiamo parlando di innovatori e di artisti necessari, molto diverso da ciò che vediamo oggi a proposito di Street Art, un linguaggio che ormai sconfina nella satira politica, per una pittura fumettista in genere modesta, pronta a cavalcare in maniera unilaterale l’attualità politica senza riconoscere un pensiero universale dal mero fatto di cronaca. Ecco perché i nuovi graffitari non entrano nelle collezioni importanti, sono snobbati dalla critica, compreso Banksy molto popolare e con evidenti contenuti, funzionando né più e né meno come illustratori su ampie dimensioni.

L’arte, infatti, non può incagliarsi sul contingente, altrimenti è un’altra cosa. Basti tornare agli interventi murari di TV Boy, salito agli altari delle cronache per aver raffigurato, nel centro di Roma, il bacio appassionato tra Salvini e Di Maio ai tempi del governo gialloverde. L’ex ministro M5S è scomparso dalla scena politica annullando così il messaggio che il pittore aveva in testa. Si spera che l’arte duri di più di una vignetta satirica, diversi sono gli ambiti e le intenzioni, inserire l’intervento di TV Boy nel mondo dell’arte significa non aver capito le differenze che passano tra un’opera da museo e un manifesto pubblicitario.

AUTORI ORIGINALI
Altra questione: il repertorio dei nuovi Streeter è ripetitivo e scontato, contestazioni di gruppo, mai per scelta individuale, annullano così un altro carattere precipuo dell’arte, l’originalità autoriale. Tanti, troppi, se ne sono visti contro il TAV, i governi, contro Israele e pro-Palestina, non si sa se più ideologici o più ignoranti. Che c’entra tutto questo con la matrice originale del graffitismo? Poco o nulla. Venendo a questi giorni, due casi hanno riportato luce sulla pertinenza di considerare arte questi interventi pubblici, che la critica di sinistra chiama attivismo mentre si dovrebbe definire conformismo. Ha fatto discutere il lavoro di Nemo’s, il cui stile è molto vicino a quello di Blu considerato tra i pochi innovatori del genere in Italia. Gli è stato commissionato di lavorare sull’immagine di Firenze che ha restituito non proprio confortante, una città cui interessa solo il profitto e il guadagno. Pare all’amministrazione pubblica non sia piaciuta, lo storico Tomaso Montanari l’ha difesa parlando di censura preventiva. La verità? L’intervento è modesto e c’è una contraddizione in termini, perché se fosse stato realizzato in modo spontaneo avrebbe funzionato da critica, supportato dal comune risulta addomesticato, inutile, un autogol in pratica. L’altra vicenda riguarda invece Jorit autore di grandi faccioni in giro per il mondo, ultimo il ritratto di Ornella Muti installato a Sochi alla presenza dell’attrice, ma soprattutto le dichiarazioni strampalate di questo artista napoletano che ama il Cremlino più di quanto Andy Warhol amasse Mao Tze Tung. 

LAUTO COMPENSO
Pare che dietro la fascinazione per Putin ci sia un lauto (non lautissimo) compenso di 90 mila euro a fronte di dieci murales da realizzare in Russia e in Ucraina per dimostrare che l’arte laggiù è libera. Se uno streeter -e non un pittore accademico- diventa cantore di un regime, ciò dimostra che questo genere di arte è ormai tramontata, se non morta. Meglio conservare e proteggere quella vera nei musei e nelle fondazioni. Dalla strada non arriva niente di buono, o pupazzoni simili a vignette o farse che però non stanno in piedi.

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