Cerca
Cerca
+

Nadia Urbinati, la filosofia secondo cui il piano Marshall servì agli Usa per conquistarci

Esplora:

Francesco Specchia
  • a
  • a
  • a

«Il comunismo non è mai andato al potere in un paese che non fosse smembrato dalla guerra o dalla corruzione o da entrambe». Fino a qualche anno fa, la frase tombale di John Fitzgerald Kennedy (pare non fosse un elettore di Giorgia Meloni) sui disastri di Stalin ricorreva spesso nei corsi di Scienze Politiche del mitico Vanni Sartori. 

Sartori è a sua volta citatissimo dall’emerita Nadia Urbinati, apprezzata docente liberal tendenza Pd di Teoria politica alla Columbia University di New York. La quale Urbinati, l’altro giorno, svettava come ospite in collegamento del programma di Alessio Orsingher e Luca Sappino C’era una volta il Novecento (su La7 dal lunedì al venerdì, ottima divulgatizione tra bei documentari). Forse è per quest’associazione di idee che affiorava la suddetta frase sul comunismo. Affiorava mentre scorrevano le immagini di repertorio delle manifestazioni contro il piano Marshall organizzate in Italia dal Partito Comunista diretto da Palmiro Togliatti e dalla Cgil, e in Francia dagli omologhi Pcf e dal sindacato Cgt.

Premetto: Orsingher e Sappino, sono bravissimi colleghi, e confezionano una trasmissione – di solito supportati da uno storico - che è puro servizio pubblico. Di solito. In questa puntata, invece, qualcosa strideva. Era come se la vera natura del Piano Marshall, quei 12,7 miliardi voluti dall’allora segretario di Stato americano George Marshall da Harvard «per riscostruire l’Europa», be’, avessero perso per strada la loro missione. Da qui, ecco tutt’un crescendo di spoetizzazione del mito degli Stati Uniti/sceriffi del mondo che mi ha sempre affascinato dai tempi del New Deal e dei documentari bellici di John Ford.

Sappino stuzzicava la professoressa Urbinati: «Cambia la natura del Piano Marshall, i soldi degli americani non servono più solo a riscostruire l’Europa ma anche a riarmarla. Il Piano cambia davvero o ha sempre fatto parte della guerra fredda?». E la prof diventa un fiume in piena: «Si capisce immediatamente che la questione è di tipo militare: gli Stati Uniti chiedono un dettaglio delle industrie e dei beni nel territorio tedesco, ovviamente l’Unione Sovietica che era parte di quell’occupazione della Germania si rifiutò, perché lo prese come tentativo di resocontare i beni sovietici nei territori occupati». A Mosca si parlò di «fascistizzazione dell’Europa a causa del Piano Marshall». Fascistizzazione. Gli americani fascistizzano. E poi Urbinati ci spiega che la «guerra fredda inizia col bombardamento con l’atomica del Giappone: come dare un’indicazione agli amici di oggi che saranno i nemici di domani: guardate che potenza di fuoco abbiamo. Quindi già prima della fine della guerra c’era un’intenzione di aprire questa ostilità. Era chiaramente un messaggio per gli alleati sovietici non per i giapponesi che sarebbero stati in ogni caso sottomessi». 

«Sconfitti...», la corregge, un tantino imbarazzato, Orsingher. Ora, il programma era indubbiamente interessante. Se non fosse – come fa notare Michele Marsonet su Italia Oggi - che l’impressione generale per gli spettatori meno smaliziati fosse quella del “Piano” evocato come strumento principe delle mire egemoniche di Washington sull’Europa, a contrasto del tentativo Urss di allargare la sfera d’influenza. Il che è, in parte, vero. Fortunatamente. Sennò avremmo avuto Stalin. Che però, in questa puntata di C’era una volta il Novecento viene quasi depurato dal suo status di assassino planetario e di genocida strategico; e viene proposto quasi come una sorta di Peppone di Guareschi, con tutto il cotè di quei mustacchi temibili ma, in fondo, onesti. E l’idea che qui, in effetti, passava era che forse, quasi quasi, rispetto ai biechi capitalisti Usa, be’ il Peppone di Mosca non sarebbe stato così malaccio. «Nessun cenno, ovvio, ai generosi finanziamenti che Mosca concedeva a questi “compagni di strada”, né al fatto che i loro leader obbedissero alle direttive impartite dal Cremlino. Quei fondi erano “puri” e per una buona causa, mentre puzzavano quelli americani», commenta Marsonet «se ne deduce che, contrariamente a quanto poi ammisero i dirigenti Pci, era forse meglio entrare nel Patto di Varsavia piuttosto che nella Nato». Magari questa deduzione è un po’ esagerata. 

Non credo sia il pensiero della professoressa Urbinati che con gli americani ci lavora; pure se basta bazzicarne l’interessante profilo Facebook per ammirarne la passione politica, italianamente tutto tranne che filogovernativa. Non è un segreto però, che le riletture storiche siano tutt’altro che un accidente della storia, diceva sempre il Sartori...

Dai blog