Strage di Capaci, il sospetto di Giuseppe De Donno: "Serve ancora verità"

di Giovanni M. Jacobazzisabato 24 maggio 2025
Strage di Capaci, il sospetto di Giuseppe De Donno: "Serve ancora verità"
4' di lettura

«Noi, e penso di parlare anche a nome del generale Mario Mori, in questo momento non abbiamo alcuno spirito di vendetta. Vorrei essere chiaro una volta per tutte. L’unica cosa che ci interessa e che si faccia finalmente luce sul periodo delle stragi di mafia che hanno insanguinato l’Italia», afferma il colonnello dei carabinieri Giuseppe De Donno, ex numero due del Ros.

Comandante, la procura di Caltanissetta ha chiesto e ottenuto dal giudice la definitiva archiviazione della “pista nera” riguardo la strage di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta. La pista nera, spinta anche da trasmissioni come Report su Rai3, era un tarocco. I neo fascisti non ebbero mai rapporti con i cortonesi di Totò Riina.
«Sono contento che finalmente si sia messa una pietra sopra questo surreale teorema che è stato oggetto di una incredibile strumentalizzazione».

Secondo lei perché?
«A molti faceva comodo affermare che le stragi degli anni Novanta del secolo scorso fossero all’interno di disegno complessivo per destabilizzare l’Italia. Per anni si sono ipotizzati legami fra la mafia, la Cia, i servizi segreti deviati, la massoneria. Ma non è stata trovata mezza prova».

Le inchieste hanno invece accertato che la morte di Paolo Borsellino ebbe un’accelerazione a seguito dell’inchiesta “Mafia e appalti” che voi del Ros stavate conducendo e che aveva nel mirino i rapporti dei capi cosca con il mondo dell’imprenditoria, anche con il coinvolgimento di importanti magistrati.
«Guardi, dico solo una cosa: il dottor Pietro Giammanco, ex procuratore di Palermo, uno dei protagonisti di quella stagione, andò in pensione alla fine del 1992, dopo quindi la morte di Falcone e Borsellino. Giammanco è morto nel 2018 e in tutti questi anni nessuno, dico nessuno, ha mai sentito l’esigenza di interrogarlo per farsi raccontare cosa accadeva nel suo ufficio in quegli anni».

Come mai?
«Cosa devo dirle? Forse aveva in mano le “leve giuste” per evitare di essere coinvolto in qualche modo».

Alcuni politici ora pensano che la procura di Caltanissetta abbia sposato la vostra tesi, il “teorema Mori”. Quale è la sua opinione?
«A me sembra offensivo che qualcuno possa solo lontanamente immaginare che il procuratore Salvatore De Luca, un magistrato attento e scrupoloso, sia condizionabile su un tema così delicato».

Se per questo c’è anche chi pensa che sia tutto un “complotto” da parte della famiglia Borsellino.
«Mi sembra lunare. I familiari del dottor Borsellino che tramano nei confronti di chi sta indagando per scoprire come è morto il loro congiunto».

In questi anni che idea si è fatto di quanto accaduto?
«In tanti hanno paura che da questa indagine venga fuori la verità. C’è il concreto rischio che si debbano riscrivere 30 anni di antimafia. Pensi solo a quanti giornalisti, magistrati, politici, hanno fatto carriera con questa narrazione».

La procura di Caltanissetta ha indagato due magistrati, Giuseppe Pignatone e Giocacchino Natoli, oltre al super poliziotto Gianni De Gennaro. Parliamo di soggetti che hanno ricoperto incarichi di altissimo profilo.
«E sono subito scesi in campo i soliti giornali di riferimento con decine e decine di articoli in loro difesa».

Non va bene?
«No. Non va bene. Perché quando io e Mori siamo stati indagati nel processo trattativa Stato-mafia, con l’accusa di aver tramato con i boss corleonesi, nessuno ha spezzato una lancia in nostro favore. Anzi, ci hanno subito bollati come colpevoli. Ora che hanno indagato loro sono tutti sulle barricate, come se fosse stata commessa una lesa maestà. Io ho avuto decine e decine di volte il telefono intercettato e non mi sono mai lamentato. Mi sono fatto 15 anni di processi. Ho accettato il giudizio non avendo nulla da nascondere. Altri invece si agitano».

Perché non ha denunciato queste cose?
«Io nel 1997 sono andato alla procura di Caltanissetta e ho riempito 50 pagine di verbale con nomi e cognomi dei magistrati di Palermo che avevano ostacolato le nostre indagini. Che altro avrei dovuto fare? Io, ricordo, sono stato accusato di aver tradito il giuramento prestato e per un ufficiale dei carabinieri è quanto mai infamante».

Cosa si aspetta?
«Sono convinto che bisogna andare fino in fondo. Certo, questa indagine andava fatta trenta anni fa. A Caltanissetta però ci sono ora magistrati coraggiosi che stanno analizzando con scrupolo ed impegno tutte le possibili piste».

E poi?
«Mi aspetto una presa di posizione forte da parte del Consiglio superiore della magistratura che non ha mai detto una parola nei confronti dei magistrati dell’epoca. Pero, ripeto, non è mai troppo tardi per la ricerca della verità e della giustizia. Bisogna avere fiducia».