Nel 1974, in pieno boom per un successo che li aveva travolti, Cochi e Renato decisero di prendere strade diverse. Smisero di essere una coppia nell’arte. Da amici quali erano e quali sono tuttora, senza aver avuto dissidio bisticci. Aurelio Ponzoni, perché questo è il vero nome di Cochi, sorride quando ritiriamo fuori la storia e lo fa nella sua Milano, quartiere Dergano. Loro due come Jerry Lewis e Dean Martin? Ma per favore.
Cochi, cosa accadde esattamente quell’anno?
«Venivamo da un successo clamoroso, quello di Canzonissima dell’anno prima che aveva consacrato la nostra comicità surreale. Tutta Italia ci conosceva ma ragionammo su alcune offerte che piovevano. Offerte cinematografiche: ma di fare la coppia al cinema, stile Franco e Ciccio, non ci interessava».
E vi separaste.
«A Renato arrivò la proposta di essere protagonista di Per amare Ofelia, un film che ebbe poi grande successo e lo lanciò nel cinema. Contemporaneamente mi telefonò Alberto Lattuada proponendomi unbel ruolo in Cuore di cane. Film tratto da un libro di Michail Bulgakov che mi aveva quasi costretto a leggere Paolo Villaggio».
Mai litigato con Renato, quindi?
«Mai. Ci siamo conosciuti da bambini a Gemonio, sul Lago Maggiore, dove le nostre famiglie erano sfollate in tempo di guerra. Ci conosciamo da 80 anni. Vuole una prova del nostro intendere l’amicizia?».
Certo.
«Quando gli offrirono di debuttare nel cinema, la prima persona alla quale fece leggere il copione di Per amare Ofelia fui io. Dissi subito: rispondi subito di sì! Poi Enzo Jannacci, coinvolto, confermò la mia scelta».
Nel libro La versione di Cochi, scritto per Baldini+Castoldi, lei lo racconta chiaramente. Ma cosa vi unisce?
«Siamo complementari ma con gusti diversissimi. Renato va pazzo per le automobili e la velocità, io leggo libri. Mai guidato una volta quando viaggiavamo insieme per lavoro. Si metteva al volante e si credeva Niki Lauda».
Come nei matrimoni, l’importante è non essere uguali?
«Esatto. Un consiglio per le giovani coppie!».
Siete cresciuti insieme sul palco del Derby?
«Calma. Prima del Derby frequentavamo le osterie milanesi degli inizi degli anni ’60. Cominciammo per scherzo all’Oca d’oro, in via Lentasio. Di giorno lavoravo a Linate, al check-in e la sera andavo con Renato per locali dove il pubblico era composto da Dino Buzzati e Luciano Bianciardi, dal pittore Lucio Fontana. Lì conoscemmo Dario Fo, Franca Rame, Giorgio Gaber. In quegli anni e prima del Derby, Milano era un vero laboratorio artistico».
Vi facevate le ossa.
«Sì. Poi con Felice Andreasi, Bruno Lauzi, Lino Toffolo, Tinin e Velia fondammo il Cab64, una nostra cooperativa che diventò il Gruppo Motore».
Il vero debutto?
«Nel 1964 a Cesenatico ci esibimmo in un piccolo tour. Fu una sorpresa, capimmo di essere apprezzati anche fuori Milano. Un’estate pazza un po’ come la nostra comicità surreale che spiazzava ma piaceva. Professionalmente siamo diventati grandi quell’anno a Cesenatico».
Per il pubblico fu come una ventata di aria nuova.
«Sì, ridevano tutti: intellettuali, calciatori, giovani».
E poi arrivò Enzo Jannacci.
«Incontro decisivo nella nostra vita e in quella di molti altri. Enzo è stato un fratello, una persona unica. Un magnifico saltimbanco, come si definiva lui. Ha scritto le nostre canzoni più belle e dopo quel Cesenatico ci portò al Derby dove tutto iniziò».
Una fucina di talenti quel locale.
«È stata una nitida fotografia della Milano anni ’60 dove, sotto il palco, si accalcavano Rivera e Mina, ma anche Vallanzasca e Lucio Fontana, Umberto Eco e Francis Turatello. Era la Milano dei Navigli».
Dal Derby sono usciti veri fuoriclasse della nostra comicità. C’è un personaggio che non ce l’ha fatta?
«Giorgio Porcaro. Fu lui a inventare il personaggio del terrunciello poi portato alle stelle da Abatantuono. Ma Giorgio aveva problemi, non era sereno. Si è perso, purtroppo».
Jannacci a parte, un altro amico di quegli anni che vorrebbe ricordare?
«Bruno Lauzi. Anche lui non ha avuto il successo che meritava. Sa cosa mi piaceva di quel clima di amicizia fra noi, al Derby? L’atmosfera cameratesca, sul piano ideologico eravamo anche agli antipodi ma ci volevamo bene. Bruno era un repubblicano con idee conservatrici, noi più progressisti. Ma la politica non ci ha mai diviso. Oggi sarebbe possibile?».
Il boom in televisione arrivò nel 1968 con Quelli della domenica. Si dice che Gianni Agnelli interrompesse le partite di golf domenicali per vedervi.
«Un suo nipote ce lo confermò. L’avvocato aveva un respiro internazionale in tutto e aveva già intuito che la comicità stava cambiando, conosceva i Monty Python che in Inghilterra stravolsero il modo di ridere».
Dopo il passaggio di Renato al cinema, 25 anni di oblio fra voi?
«No, anche perché il cinema l’ho frequentato anch’io. Abbiamo girato alcuni film insieme come Telefoni Bianchi di Dino Risi o Sturmtruppen. Da solo ho lavorato con Monicelli, ho fatto Il Marchese del Grillo con Sordi. Poi molto teatro perché ho sempre amato esibirmi davanti a un pubblico in carne e ossa».
Nel 2000, dopo un quarto di secolo, vi siete ritrovati.
«Renato mi telefonò e mi propose Nebbia in Val Padana, sulla Rai. Abbiamo ritrovato il nostro feeling con i vecchi sketch e nuove idee. Chiamammo gli amici e ci ritrovammo sul palco. Ma nella vita privata non ci eravamo mai persi».
Il pubblico del 2000 era diverso da quello degli anni ’60?
«Sì ma le nostre battute piacevano ancora, i ragazzi ridevano e capivano la diversità della nostra proposta, di una comicità che aveva sfondato 30 anni prima ma era rimasta attuale. Per una quindicina di anni abbiamo fatto teatro insieme e quando si trattava di alzare la gambina o cantare La gallina è un animale intelligente, beh gli applausi non mancavano».
E qui veniamo al punto: quale è stato il vero segreto del vostro successo evergreen?
«Avevamo inventato da ragazzini, io e Renato, una comicità surreale con scenette che trascendevano dall’avanspettacolo. Eravamo oggettivamente oltre. Anche nel nostro lavoro questa scelta ebbe, fortunatamente, un successo clamoroso».
Avete inventato un genere nuovo: oggi l’impressione è che si sia tornati indietro vedendo le nuove leve.
«Vero. Oggi la comicità ha fatto due passi indietro, molti sono tornati alle corna, alla moglie pedante, ai tradimenti.
A ispirazioni più terrene delle nostre e tradizionali».
Chi le piace dei giovani?
«Valerio Lundini. Ma anche Lillo e Greg hanno un linguaggio che assomiglia un po’ al nostro. Negli anni ’90 ho molto apprezzato Aldo, Giovanni e Giacomo».
Cochi, a 84 anni lei sta serenamente continuando la sua bella vita, vero?
«Sì. Non ho mai perso la trebisonda. Ora giro l’Italia presentando il mio libro scritto con Paolo Crespi e abbino anche alcune scenette cantando. Poi diversifico le serate: ci siamo inventati con alcuni jazzisti amici un omaggio a Charlie Parker: loro suonano, io racconto».
Ma salire sul palco che sensazioni le dà ancora?
«È, metaforicamente, una pedana dove i disperati si esibiscono senza rete. Come al Cab64, sessant’anni fa».