Giampiero Monti, il racconto: "Così ho servito la patria sotto i razzi di Mogadiscio"

di Antonio Castrogiovedì 3 luglio 2025
Giampiero Monti, il racconto: "Così ho servito la patria sotto i razzi di Mogadiscio"
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Un vecchio missile Rpg che si incastra nelle lamiere del mezzo militare (e che per fortuna non esplode), un commilitone che guarda tramortito la mano frantumata e un altro, con la gamba amputata, che vede il sangue e la vita defluire. Sullo stesso mezzo preso di mira dai ribelli somali c’è anche il sergente maggiore Monti. Con la pancia strappata e i suoi uomini ancora da mettere in sicurezza.

È il 2 luglio 1993. Somalia, Mogadiscio. I signori della guerra locali si contendono il controllo del territorio di un Paese tramortito, da anni devastato da armate che si confrontano tra povertà e miseria. In mezzo c’è un commercio enorme di armi, proiettili, razzi anticarro, mitragliatrici potenti. E una montagna di kalashnikov che passano di mano contrabbandati. Nascosti sotto le vesti delle donne che godono “dell’immunità islamica”, sanno tutti che non saranno perquisite.

Ai militari italiani il compito di riportare la tranquillità, distribuire generi alimentari, offrire soccorso sanitario e - soprattutto - sequestrare l’arsenale che alimenta questa guerra civile. Oggi, 32 anni dopo, si celebra l’anniversario di quella che è passata alla storia come la battaglia del checkpoint Pasta. L’Italia schiera in Somalia gli uomini dell’Esercito - sotto le insegne Italfor- in una complessa e delicata operazione multinazionale di peacekeeping. Proprio il 2 luglio 1993 dalle sassaiole si passa al tiro al bersaglio contro gli uomini e i mezzi del contingente italiano. Mogadiscio, e le città limitrofe, sono devastate. Qualche scaramuccia c’era già stata ma «nulla di simile», racconta a Libero, dopo 32 anni, Giampiero Monti, 1° Luogotenente della scuola sottufficiali dell’Esercito, il più alto grado a cui possano arrivare i sottufficiali di carriera.

Ma l’allora sergente maggiore Monti era un giovane comandante di squadra. Arruolatosi come volontario a soli 17 anni riesce a superare i corsi e viene inquadrato nel 183esimo battaglione “Nembo”. E', insomma, un paracadutista della Folgore. Le unità che vengono solitamente schierate quando viene chiesto al nostro Paese di contribuire con uomini e mezzi nei teatri internazionali più delicati. L’Italia oggi è impegnata in una trentina di missioni con migliaia di uomini. Ci viene riconosciuta una capacità di interposizione diplomatica e militare non comune.

Ma quello che è successo quel giorno sulla Strada Imperiale di Mogadiscio è passato alla storia per l’impiego dei militari dell’Esercito italiano nella prima vera e propria battaglia dopo la seconda guerra Mondiale. La Somalia era allora una pentola a pressione di conflitti tra bande. Le operazioni di pacificazione portate avanti dai militari italiani contro i “signori della guerra” quel giorno costarono la vita a tre uomini e altri ventidue furono feriti. La battaglia del checkpoint Pasta è rilanciata dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo. In Italia arrivano le immagini dei soldati italiani presi di mira.

Trentadue anni dopo il 1° Luogotenente Monti - medaglia d’argento al valore militare, tre le più alte onorificenze - potrebbe anche ambire al pensionamento. Eppure, racconta, «mi piacerebbe restare in servizio per trasmettere agli allievi della scuola sottufficiali dell’Esercito di Viterbo quello che ho appreso in quasi 40 anni di servizio». Non è un signore che vuole andare ai giardinetti (è già nonno di 3 bambini, padre di quattro figli). Anzi, dopo essere finito 55 volte sotto i ferri per farsi rammendare lo squarcio di 20 centimetri che ha subito al ventre da quel maledetto Rpg, «spero di essere trattenuto in servizio. Sono fiero e orgoglioso della scelta di vita che ho fatto. Dalla decisione di arruolarmi da minorenne alle esperienze negative che negli anni sono capitate». Lo racconta così. Come se fosse una cosa comune.

In Kosovo, anni dopo la Somalia, si frantuma 5 costole. Ma non desiste. «Tutto aiuta a farti crescere. $ quello che cerco di trasmettere ai ragazzi che entrano nella nostra scuola militare». Ne saranno passati qualche migliaio da quando il militare Monti è in servizio alla scuola. Parlarci non è, né può essere, un’intervista ordinaria. Non si può scrivere domanda e risposta e passare oltre. Quando racconta dello squarcio al ventre. Dalle «budella che cerca di rimettersi dentro» mentre attende i soccorsi con i commilitoni che gli fanno da schermo si viene catapultati in uno scenario di conflitto che allora era roba da inviati di guerra. Oggi la guerra è giunta alle porte d’Europa.

Da Israele all’Ucraina sembra essere precipitati in quella che papa Bergoglio definiva «guerra mondiale a pezzi». L’Africa poi è un campo minato. Il Primo Luogotenente Monti non si avventura in analisi geopolitiche dei tempi che stiamo vivendo. Sa che il suo fare «il soldato non è soltanto un servizio. Ma dare un esempio ai ragazzi come ai figli». Non a caso due dei suoi quattro figli hanno intrapreso la stessa strada. Fiero, racconta, che si siano arruolati «proprio nei paracadutisti».

L’unica domanda che osiamo porgli - dopo averlo lasciato raccontare per oltre un’ora - è cosa direbbe al “nipotino” appena quindicenne se decidesse di arruolarsi anche lui: «E che dovrei rispondere? Ne sarei fiero». Così come è fiero della scelta della moglie anche lei militare. P.S. Personalmente l’unico timore nel raccontare questo anniversario è di non essere stato capace di trasmettere l’amore di un uomo per la sua nazione. Per la divisa che indossa. Per il basco amaranto che porta.

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