Il genio che ha salvato il nostro tempo perduto

George Eastman, fattorino e poi contabile, fondò l’azienda che rivoluzionò le nostre vite e che ora rischia la bancarotta
di Marco Patricellimartedì 19 agosto 2025
Il genio che ha salvato il nostro tempo perduto

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I l profondo rosso era l’unico colore rimasto fuori da una scala cromatica apparentemente infinita che ha disegnato il mondo e la storia. Il rosso dei conti. Kodak non è solo un nome: è una parola onomatopeica che evoca il momento dello scatto di una macchina fotografica; è un’emozione del tempo e del ricordo che si fermano; è il passato che vive nel presente e nel futuro; è la luce che entra in un apparecchio e si fissa sulla carta. Kodak non significa niente, eppure significa tutto perché testimonianza di un evento epocale come di cronaca giornaliera, di svago della gita in famiglia e tra amici o della vacanza, e pure di arte alla portata di tutti che si è sostituita alla pittura per pochi nella rappresentazione del vero e del verosimile. Ma oltre alla leggerezza di un’istantanea catturata per sempre, adesso è anche l’insostenibile pesantezza di una valanga di debiti. Kodak era, è stata e forse non sarà più una costante della quotidianità, perché persino le storie più inebrianti di un successo tecnologico-commerciale e di costume non sono eterne, e non è detto che finiscano bene, neppure se iniziano da un sogno che si incarna nella realtà e ne diviene parte.

George Eastman, prima fattorino poi contabile, che al crepuscolo dell’Ottocento si lanciò nel business della scrittura con la luce, sognava sì, ma con i piedi sul solido e fertile terreno dell’America che le visioni geniali le faceva crescere e prosperare. Intuito nell’idea, intelligenza per realizzarla, perseveranza nel superare ogni tipo di ostacolo, come le barriere linguistiche: non comprendeva tedesco e francese, gli idiomi della Vecchia Europa all’avanguardia nella fotografia, e fece in modo che la lingua internazionale divenisse l’inglese proprio per merito suo e attraverso i suoi prodotti. A 24 anni le prime lastre, a 30 le pellicole trasparenti sfornate dalla sua prima società che portava il suo nome e la ragione sociale. A 34, nel 1888, i primi apparecchi fotografici, che chiamò appunto Kodak, e l’anno dopo la pellicola a 35mm, spina dorsale dell’industria cinematografica. Ma i grandi numeri, le grandi imprese, i grandi successi, non raccontano tutto. Kodak è entrata in tutte le case, con macchine professionali e apparecchi infallibili per dilettanti.

Negli anni luce tutto viaggiava con lentezza, ponderazione, selezione, e poi ancora con altra lentezza fino al momento di poter vedere l’esito dello scatto. I rullini erano di 12, 24 e 36 pose, non costavano poco nonostante la diffusione, e poi andavano aggiunti i costi di sviluppo e stampa. Un altro mondo rispetto alle odierne mitragliate di istantanee con gli smartphone, delle migliaia di immagini in una schedina che pesa una briciola di grammo. Pochi avevano la fortuna di un amico fotografo che in camera oscura ti consentiva di assistere al miracolo in diretta di trasferimento dalla pellicola alla carta, dopo il passaggio dei fogli nelle vaschette con i reagenti, in quell’ambiente rosseggiante dove piano piano appariva il risultato dello scatto accuratamente scelto e su cui si riponevano le speranze di aver indovinato l’esposizione, la luce, il polso fermo.

Altrimenti occorreva attendere i tempi del laboratorio, e andare a ritirare la busta e i negativi, che consentivano di riprodurre copie e ingrandimenti. Poi quel rettangolino stampato finiva nell’album: quello tascabile sponsorizzato dal fotografo, oppure quello ricercato a forma di libro rilegato, per i ricordi più preziosi e costoso di conseguenza. Fu accolta come una rivoluzione la macchinetta della Polaroid che sviluppava da sé l’istantanea. Brutta e spigolosa, sembrava però davvero una scatola magica che ieraticamente lasciava uscire la base in cui piano piano prendeva forma l’immagine; una sventolata all’aria aperta e magari c’era anche il tempo di rimettersi in posa e provare a fare di meglio. Certo, la qualità non era la stessa delle pellicole che si misuravano ad Asa, con numeri che più salivano più esprimevano sensibilità più incidevano sulla tasca, come oggi i megapixel.

La Polaroid, una volta alleata e poi acerrima nemica commerciale, diede a Kodak il primo colpo, in una battaglia persa che le costò in tribunale il doppio della cifra che oggi rischia concretamente di far sparire dal mercato i prodotti con la grande K rossa sull’inconfondibile sfondo giallo. Polaroid non c’è più da quasi un ventennio, Kodak probabilmente non farà in tempo a rilanciare, come annunciato, la pellicola fotografica sulla scia di un revival che già ha fatto riproporre sul mercato i dischi in vinile dopo la grande sbornia del digitale talmente perfetto da risultare freddo, impersonale, da laboratorio: niente romanticismo, solo perfette formule matematiche che non generano però emozioni neppure con i prodigi dell’intelligenza artificiale. Il vento dell’Oriente ha soffiato forte anche sull’America della fotografia, sfocandola fino a stemperarne i colori. Dall’esperienza analogica alla transizione digitale, con l’incombenza di una fine illogica. La Kodak si è arroccata nel Fort Alamo assediato da 500 milioni di dollari di debiti, ma se non arrivano aiuti con la sola forza della tradizione queste battaglie non si vincono più. George Eastman lanciò non solo prodotti che hanno fatto la storia, ma anche lo slogan che li rendevano popolari: «Voi metteteci il click, noi ci mettiamo tutto il resto». Oggi, per amaro paradosso, o forse per spietato contrappasso, basterà appena un click per far finire Kodak in quell’album dei ricordi che, col sapore della nostalgia, generazione dopo generazione ha cullato la ricerca del tempo perduto.