Quando muovevo i primi passi in questo mestiere, Emilio Fede era già un monumento, sacralizzato, una stazione votiva della Via Crucis del giornalismo, un simbolo della professione in tv. Era già passato alla scuderia del Biscione, ma io lo ricordo in un “prima” in bianco e nero, quando ero bambino e cantava la messa sul Tg1 dopo l’Angelus del Papa. Fede era un personaggio da romanzo di Ian Fleming, una cosa che dopo il “Bond, James Bond”, suonava così, “Fede, Emilio Fede”, un marchio di fabbrica perfetto in una spy story, in presa diretta al Casino Royale, con le fiches che si ammucchiano mentre la pallina della roulette gira, gira, gira e si ferma sul numero sbagliato, non quello di Fede, quello di Bond. Emilio nella vita ha vinto e ha perso, era un giocatore nel senso più largo della parola, ha raddoppiato la posta quando tutti si sarebbero ritirati a godersi il piatto della vittoria, era sempre in debito, dopo aver riscosso tanto credito. Gli piaceva il rischio, l’azzardo, ma soprattutto era un incredibile cane da caccia della notizia. Resterà indelebile per me (e tanti lettori) la sua cronaca della Prima guerra del Golfo, un evento storico della tv, non un caso fortuito, era il “format Fede” all’ennesima potenza, Emilio che racconta, ogni parola una cannonata, fino alla dichiarazione d’amore per quella cronaca, “la guerra è bella”. Lo diceva in senso omerico, lui pensava agli eroi, ai miti, alle grandi imprese e, da figlio della Magna Grecia, aveva con sé l’intima ragione. Con Silvio Berlusconi ha inventato la macchina della televisione privata, l’informazione senza interruzioni, il cazziatone in diretta ai giornalisti che non gli passavano il servizio giusto. Era tutto un “qui non funziona niente, non siete capaci, ma cosa state facendo”, poi spariva il video e cominciava il vero show, quello di Emilio che cercava il colpevole, altro che “Un giorno in Pretura”, andava in scena l’ispettore Fede con in pugno la 44 Magnum di Callaghan che lui trasformava in colpi fondamentali del giornalismo: dare la notizia, creare l’attesa, lanciare il servizio. Tutto il resto fa parte della poesia, della mitografia del personaggio, dell’avventura, del cominciare coni lavori più incredibili, della gavetta, del sacrificio, della fantasia, del talento di portare a casa l’osso (la notizia) anche quando sembra non esserci niente. Fede l’ultima intervista l’ha data a Libero, un supremo regalo a questa testata, nata per essere refugium peccatorum degli irregolari, di quelli che sbagliano, si correggono, cadono, si rialzano, vanno avanti, senza nessun rimpianto per quello che è rimasto indietro.
MOSTRIFICAZIONE Della sua leggenda scriveranno in molti, della sua mostrificazione non so quanti. Nella cupa stagione dell’assalto a Silvio Berlusconi, Fede fu la vittima preferita, non si fece mancare nulla ma non gli risparmiarono nulla. Nella disperazione, cercò un rifugio isolandosi senza riuscirci, anelava a una pace impossibile, perché la caccia alla preda Fede fu senza pietà, vecchio, stanco, malato ma ancora lucido abbastanza da cercare sprazzi di libertà, fu accusato di evasione dagli arresti domiciliari quando in realtà era semplicemente un uomo che cercava ancora l’ultimo respiro, la festa per i suoi 89 anni. Arrestato, umiliato, messo al tappeto, distrutto dalla macina infernale dei social media, abbattuto anche dai suoi eccessi, dal suo genio che andava per forza a braccetto con la sregolatezza, dalla sua esplorazione del limite del “bon vivant” che, come sanno quelli che ci hanno provato, è “no limits”. Lo hanno inchiodato alle cene eleganti, al bunga bunga, alla “character assassination” di una stagione politica all’arsenico, mentre lui era semplicemente un giornalista che era anche un uomo, pieno di vizi, di difetti, vivo da morire. Mi viene in mente una straodinaria opera teatrale di Georg Büchner “La morte di Danton”, dove Robespierre ghigliottina tutti, anche i suoi amici, perché li considera impuri e a un certo punto Danton, già condannato a morte, pronuncia queste parole che il tribunale del popolo che ha inchiodato Fede dovrebbe leggere e ricordare: «Robespierre! Tu non hai preso denaro, tu non hai fatto debiti, non hai dormito con una donna, hai sempre portato un vestito decente, non ti sei mai ubriacato. Robespierre, sei di una rettitudine rivoltante. Io mi vergognerei di correre per trent’anni tra cielo e terra sempre con la stessa fisionomia morale, solo per il gusto di trovare gli altri peggiori di me. Ma non c’è dunque niente in te che qualche volta, sottovoce, ti abbia detto: “tu menti, menti!”?». E alla fine della legge, oltre la norma, dopo la giustizia, non resterà nulla, perché più forte di tutto è il big bang di quel giornalista, proprio quello lì, che accompagnò le giornate degli italiani nella cavalcata pazza della seconda metà del ’900, fino all’ingresso in un nuovo millennio, in sella, con in mano la Durlindana dell’arte dei pupi della sua Sicilia.
GLI SCHERZI CON SILVIO La memoria, quante potrebbe raccontarne ancora Fede di storie, di pazzie, di eterni ritorni, della Balena Bianca di Fanfani, di Moro, di Andreotti, dei socialisti di Bettino Craxi e di quelli prima di lui e del nulla dopo di lui, dei direttori generali della Rai che passavano e lui che restava, degli scherzi con Silvio sul fare la nuova televisione, che in fondo era semplicemente un’altra grande visione della macchina del meraviglioso e dell’obbiettivo della telecamera spianato sul mondo. Fede fu immagine e parola, rigorosa grammatica e selvatica spontaneità, sembrava un dimenticato tra i tanti e ora, eccoci qua, les jeux sont faits, Emilio è ricordato.