Ritmo frenetico, tono di voce marcato e parole a macchinetta - per lo più senza senso stile grammelot -, intervallate da pause ben studiate, battute e giochi di parole: il telegiornale satirico di Salvatore Marino è entrato nella storia della comicità italiana non solo perché è stato il primo del genere, ma perché era incredibilmente moderno già 30 anni fa. Salvatore, che è nato ad Asmara («Sì, sono meticcio anche se nessuno usa mai questa parola») e si è formato artisticamente nel laboratorio teatrale di Gigi Proietti («Un maestro generosissimo»), si racconta: l’Etiopia, il razzismo, Arbore, la tv, il cinema e soprattutto il teatro, il vero grande amore.
Appuntamento in una pasticceria siciliana: Salvatore Marino, è un caso o una scelta precisa?
«Cannoli, cassata e arancini sono i sapori che mi ricordano mio padre, che era palermitano. Quando sono a Roma vengo spesso qui».
Perché, dove vive?
«A Grottaferrata, sui Castelli Romani. Ci sto da quando sono arrivato in Italia, non mi sono mai spostato. Scusi un secondo, rispondo al telefono. “Il festival? Sì, poi ne parliamo».
Noi, invece, parliamone subito. Di cosa si tratta?
«Il “Vertical movie festival” dedicato ai contenuti verticali audiovisivi di massimo 10 minuti: l’ho ideato nel 2017 quando, guardando i filmati sul web - soprattutto sui social- mi sono accorto che il 70 per cento delle riprese erano in verticale.
Così ho organizzato questo evento che si tiene ogni anno: l’appuntamento per il 2025 è il prossimo 4 ottobre alla Casa del Cinema».
Quanti video vi arrivano?
«Migliaia da 117 Paesi del mondo: ci sono appositi gruppi di lavoro che li guardano e fanno le prime scremature. È un Festival ormai rinomato».
Questa è la sua attività principale?
«No, il grande amore resta il teatro. Da tre anni sto portando in scena “A spasso con Daisy” con Milena Vukotic, che ha 89 anni ma è in grande forma, e Maximilian Nisi. Abbiamo superato le 400 repliche, riprenderemo ad aprile».
Salvatore, scusi, ma ha notato come la fissano dagli altri tavoli?
«Ci sono abituato. Molti, quando sono di spalle, mi riconoscono anche solo dalla voce. E poi mi indicano: “Ma tu sei quello del Tg comico?”».
Già, il telegiornale “senza senso” che l’ha resa celebre negli Anni ‘90. La infastidisce essere ricordato soprattutto per quello? Lo considera riduttivo?
«Per niente. Le creature degli artisti sono come figli, si vuole bene a tutte allo stesso modo».
Ogni tanto lo fa ancora?
«Tre anni fa è stato messo su Youtube un mio vecchio Tg e ha fatto un’infinità di click. Mi hanno chiesto di ritornare in tv ma, su consiglio dell’amico Renzo Arbore, ho preferito portarlo su internet».
Il piccolo schermo, sembra di capire, non le manca molto.
«Il mio passaggio televisivo è stato accidentale e ora, poi, non saprei cosa proporre, ormai si fanno tante chiacchiere da salotto e si urla troppo».
I programmi comici li segue? Per esempio Lol.
«Mi hanno chiamato e ho detto “Per carità, no”. Va in scena il meglio del peggio degli artisti».
In generale, però, c’è qualche comico che la fa ridere?
«Angelo Duro è davvero divertente. Ma quello che mi piace di più è Checco Zalone: ha una comicità anglosassone e all’estero potrebbe osare anche di più. Ha preso tanto da Leone di Lernia, che era il trash fatto persona, e l’ha elaborato. Checco è potentissimo, reggerà per anni».
In televisione, quindi, cosa guarda?
«Mi tengo aggiornato seguendo approfondimenti, politica, talk show e, ovviamente, telegiornali. E tutte le guerre nel mondo mi preoccupano, non si capisce proprio come venirne fuori».
Lei di conflitti ne sa qualcosa, vero? Torniamo indietro nel tempo così raccontiamo.
«Nasco il 2 gennaio 1960 ad Asmara. Papà Lorenzo, siciliano, vive in Eritrea perché, da camicia nera, nel 1936 fa la campagna d’Africa e poi viene fatto prigioniero dagli inglesi. Conosce Gabriella, si innamora di lei, molla la ragazza che lo sta aspettando a Palermo e la sposa. Ovviamente di nascosto perché le leggi fasciste vietano, a un italiano, di mettersi con un’africana».
Figlio unico?
«Sono il più piccolo di otto e cresco tra tette, culi e cosce delle amiche delle mie sorelle».
Mica male. Come è Asmara in quel periodo?
«Città futurista perché costruita dagli architetti del Duce che possono sperimentare più che in patria. Si vive bene, la comunità italiana è di 175mila persone e frequento scuole italiane».
Poi che succede?
«Tra la fine del 1974 e l’inizio del 1975 scoppia la guerra tra eritrei ed etiopi ed è un inferno, arrivano colpi di mortaio a pochi metri da casa e ogni volta mi rendo conto che il prossimo a essere ucciso potrei essere io. Viviamo stesi per terra giorno e notte, senza cibo né acqua».
Però riuscite a scappare.
«Lo Stato italiano interviene per proteggerci e, con l’aiuto della Croce Rossa, organizza dei voli. Vengono a prelevarci in casa alle 5 di mattina e ci imbarcano sull’aereo Hercules, che ci porta a Ciampino».
Come è l’impatto con l’Italia?
«Duro. È febbraio, abbiamo perso tutto, io sono in pantaloncini corti e ho freddo: per fortuna veniamo accolti in un albergo di Grottaferrata, dove ci stiamo un anno e mezzo. Allo stesso tempo, però, sono felice perché mi rendo conto che mi hanno salvato la vita».
E l’impatto con gli italiani?
«Ottimo, io non mi sento a disagio anche se sono meticcio».
Perché quel sorriso?
«Chissà come mai la parola meticcio non viene quasi mai usata. In un mio spettacolo lo spiegavo dicendo che io “sono quella via di mezzo, né troppo chiara né troppo scura, una specie di nero pentito, di nero sbiadito o di bianco indeciso”».
Buona questa. Diceva degli italiani...
«Mi trovo bene fin da subito perché sono nella terra di mio padre, conosco bene la lingua e amo la cultura italiana. Mia madre, invece, soffre di più perché è nera. O negra, faccia lei».
In che senso?
«Quello del linguaggio, quando ci si riferisce al razzismo, è un meccanismo pericoloso. Anziché risolvere il problema si lavora sui termini per non offendere, si tenta di gestire le parole. C’è molta ipocrisia, è come nascondere la polvere sotto il tappeto per non farla vedere. Io mi offendo più se mi chiamano “di colore” che negro».
Salvatore, torniamo alla sua adolescenza.
«A 16 anni trovo un lavoretto nella ristorazione come aiuto cameriere e, nel frattempo, studio fino al diploma di ragioneria».
Poi?
«Essendo profugo usufruisco di una legge speciale e vengo subito assunto in un’azienda di farmaci. La sera, però, mi dedico al teatro e, dal 1983 al 1985, frequento il laboratorio diretto da Gigi Proietti».
Difficile entrarci?
«Veniamo scelti in 25 su migliaia di candidati. Io, per il provino, porto un pezzo di Petrolini. Recito, ballo e canto “Summertime”, ma tradotto in italiano. Gigi mi ferma: “Ao’, ma che stai a fa’?”.
“Eh, l’ho imparata così”. “Vabbè, continua”».
Scuola costosa?
«Ce la paga la Regione e in più prendiamo pure 500 lire al giorno per il pranzo».
Proietti come è?
«Geniale, a ognuno di noi trova subito i pregi su cui lavorare e ci insegna a non preoccuparci dei difetti perché prima o poi torneranno utili. È esigente, maniacale, ma impariamo tantissimo.
Le lezioni sono in programma tutti i giorni dalle 10 alle 18 e, nell’arco dei tre anni, lo affiancano insegnanti di altissimo livello come Paolo Panelli e Nanni Loy».
Tra il primo e il secondo anno del corso andate anche in scena, a fianco di Proietti, ne il “Cyrano di Bergerac”.
«A livello attoriale lui è incredibile, generosissimo. Durante le prove improvvisiamo e le scene migliori le teniamo, ma la drammaturgia è sempre pronta ad adattarsi. Come quella volta...».
Cioè?
«Gigi deve appoggiare delle schede su un porta-spartito e poi leggerle, ma in uno dei primi spettacoli i fogli cadono a terra. Si china per prenderli e, ad alta voce, commenta: “vabbè, ma che li raccolgo a fa’, tanto so tutto a memoria”. Boato, tutti impazziscono e quel momento diventa un appuntamento fisso di ogni replica».
Con voi, invece, come è in scena?
«Gli piace scherzare, allentare la tensione. Quando diamo le spalle al pubblico ci fa buffe smorfie per farci ridere e se gli spettatori applaudono poco, senza farsi sentire da loro, ci sussurra: “Ao’, so statue de marmo questi qui”».
È in quel periodo che lei si inventa il Tg satirico?
«Merito del professore di dizione».
Perché?
«Io ho una pronuncia sporca, mista di accento siciliano e suoni eritrei. L’insegnante mi suggerisce di ascoltare tanto italiano parlato, quello della radio e della televisione. Così, per gioco, mi viene l’idea fare un personaggio - una via di mezzo tra un annunciatore e un politico- che parla senza dire niente, per assonanze, onomatopea, facendo una specie di grammelot stile Dario Fo».
Come ci arriva, poi, in televisione?
«Festa di compleanno del doppiatore Pasquale Anselmo - siamo nel 1988 -, ci ritroviamo tutti noi ex studenti e ognuno si esibisce su un piccolo palco. Io provo quello strano personaggio, che piace. Vengo segnalato a Renzo Arbore - oppure lui è tra gli invitati camuffato per cercare talenti, come fa spesso -, il quale il giorno dopo mi chiama a casa. Io penso sia un amico imitatore e non lo prendo sul serio, lui ride e mi dà appuntamento al Pantheon».
Si presenta?
«Solo perché l’amico giura che non era lui alla cornetta. Arrivo e ci sono Arbore, il regista Porcelli e Marenco. Mi propongono di partecipare al programma D.O.C. su Rai2 e Renzo ha l’intuizione giusta: “Devi fare una specie di Tg, ma nello studio vero del Tg2, con la scenografia reale”».
Grande idea e grande successo.
«Registro dove fino a pochi minuti prima c’erano la Gruber, Cucuzza e Mentana. E li incrocio».
A proposito, il suo Tg ricorda molto proprio Mentana: sembra una sua parodia.
«Perché lui parla un’ottava sopra rispetto agli altri, il che lo fa sembrare più veloce. Io mi ispiro soprattutto a lui e poi, molto, fa anche la somiglianza fisica di quei tempi: entrambi siamo con i riccioli e gli occhiali».
Ma c’è un segreto per il suo grammelot? Quanto è improvvisato?
«Mi sono costruito un vocabolario parallelo di parole che non esistono, circa 200, e che non hanno senso, che poi utilizzo in base alle esigenze. Tipo dire “È scattata nella znotte”: non significa nulla, ma a tutti suona bene».
Con D.O.C., in tv, lei diventa popolarissimo.
«Mi arrivano proposte di serate, programmi, per tre anni partecipo a Zelig e guadagno tanto. Ma la notorietà la considero sempre un incidente di percorso e non mollo mai il teatro».
Nel quale, però, inizialmente fa fatica a trovare lavoro.
«Per un motivo molto semplice: 30 anni fa, per un meticcio, a parte Othello e Calibano non ci sono ruoli».
E nel cinema?
«Qualche occasione in più. Ma all’inizio, per guadagnare, faccio lo stuntman mettendo a frutto il saper tirar di scherma, imparato per Cyrano, e l’andare a cavallo. Che ridere, invece, quella volta del doppio provino...».
Raccontiamo subito.
«Nel 1987 vado a fare una selezione per Gianni Amelio. L’assistente mi fissa, poi dice: “Noi cerchiamo qualcuno che abbia l’aspetto del calabrese, ma tu sembri più nord-africano. Ti faremo sapere”. Passano due settimane e mi presento a un provino per Marco Tullio Giordana, che commenta: “Noi cerchiamo qualcuno che abbia l’aspetto di un nord-africano, ma tu sembri più calabrese”. Lo guardo incredulo: “Faccia una cosa, telefoni a Gianni Amelio e mettetevi d’accordo”».
Meraviglioso. Alla fine però Giordana la prende per “Appuntamento a Liverpool” (1988). L’anno successivo, invece, lavora ne “Il colore dell’odio” di Pasquale Squitieri.
«Un pazzo scatenato e simpaticissimo. Una volta, al secondo errore nel dare una battuta, mi dice: “Se sbagli ancora ti do un cazzotto”. E io: “Tranquillo maestro”. Invece ci ricasco e pum, mi arriva un pugno».
Poi serie tv come “Villa Arzilla” e molti film tra cui “Gente di Roma” (2003) per la regia di Ettore Scola.
«Nel quale interpreto un giornalista che deve scoprire cosa pensano i romani degli stranieri attraverso i murales e le registrazioni delle chiacchierate in autobus».
Salvatore, siamo alle ultime domande veloci. 1) Rapporto con la religione?
«Sono cattolico praticante».
2) Paura della morte?
«No, solo della sofferenza».
3) Musica preferita?
«Il funky, sono innamorato di James Brown. Detesto, invece, il trap di adesso».
4) Ha figli?
«Purtroppo no: ne avrei voluti tanti, tipo una decina».
5) Che rapporto ha con la politica?
«Sono cresciuto con i feticci di Mussolini in casa e papà, appena arrivati in Italia, mi portava alla sede del Msi e ai comizi di Almirante. Alla fine degli Anni ’70 invece, durante le scuole superiori, ho abbracciato la sinistra, che però poi, piano piano, ha deragliato perdendo identità e allontanandosi dalle persone e dalle periferie. Adesso mi rimbocco le maniche per risalire la china».
A proposito, ma Berlusconi l’ha mai conosciuto? Come mai quel sorriso?
«Bagaglino, dicembre 2009, ad assistere allo spettacolo c’è anche il Presidente del Consiglio che alla fine viene nei camerini: “Siete tutti invitati a cena da me a Palazzo Grazioli”».
Ci andate?
«Esperienza incredibile fino alle 5 del mattino. Siamo in 22 artisti, ci accoglie tutti per nome e cognome e, delle ballerine, conosce pure i nomignoli. Si ferma a salutare il suo imitatore, al quale scrive i testi direttamente lui, e poi viene da me: non l’ho mai visto prima, ma mi sembra di conoscerlo da sempre. Ci fa vedere la casa, compreso il letto che gli ha regalato Putin, e poi inizia la cena».
Canta?
«Benissimo e sembra di sentire Al Bano, poi racconta le barzellette ed è davvero divertente. Quando è quasi mattina, infine, Pingitore gli spiega che dobbiamo andare e lui ci porta 22 libri, che ci consegna personalmente e poi ci firma uno a uno. Mai incontrato uno così brillante».
Ultimissima domanda, Salvatore. Ma lei ha ancora un sogno?
«Riuscire a tramandare i segreti di questa professione ai giovani, insegnare quanto ho appreso negli anni. Magari fondando proprio una scuola».