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Krasznahorkai, l'uomo libero che ha visto l'apocalisse comunista

Visionario, kafkiano e innamorato di Trieste: Laszlo Krasznahorkai, lo scrittore ungherese che scava nella "bellezza dell’inferno"
di Daniele Priorivenerdì 10 ottobre 2025
Krasznahorkai, l'uomo libero che ha visto l'apocalisse comunista

(Ansa)

4' di lettura

Il Premio Nobel per la letteratura del 2025, assegnato ieri dall’Accademia di Svezia, è andato a un anticomunista. E già questa, di per sé è una gran bella notizia. Si tratta dello scrittore ungherese, definito dai critici “apocalittico”, che risponde al nome di László Krasznahorkai, da tempo considerato il più grande tra gli autori magiari viventi. E, sia pure con i forti, dovuti distinguo, il pensiero non può non andare ad altre due eccezionali penne capaci di resistere con le loro parole – pure insignite del Nobel – alle ombre rosse che incombevano sui loro Paesi: la Russia di Aleksandr Solženicyn, vincitore del Premio nel 1970 e il Perù di Mario Vargas Llòsa, campione di liberalismo che sfidò nel 1980 il futuro sanguinario dittatore di sinistra Fujimori, accreditato del Nobel nel 2010.

Ora - e in maniera assai significativa - è la volta di László Krasznahorkai. Proveniente da quell’Ungheria che ha sempre rappresentato un confine. Frontiera dell’impero asburgico prima e poi limite della Cortina di Ferro che ha incastrato il popolo ungherese, allontanandolo dalle sue radici culturali in realtà profondamente occidentali. Un humus che, però, fortuntamente Krasznahorkai non ha mai smesso di sentire suo e combattendo per difenderne le ragioni con i suoi monumentali volumi dalle radici kafkiane e lo stile di scrittura che tiene insieme Gogol, il surrealismo di Becket, ovviamente Kafka ma, a ben vedere, anche il flusso di coscienza di Joyce e del suo Ulisse. Anche se, ha sottolineato più di qualcuno, nella prosa di Krasznahorkai compare ancora un po’ più di realtà, tale da far scorrere il viaggio verso l’apocalisse che è nella mente di ognuno di noi, in maniera se possibile più lenta, quasi in un delirio ragionato. O magari, perché no, anche, idealmente, a tempo di musica, o ancora fluido come lava. Tutte definizioni accumulate negli anni dai corposissimi ma non così numerosi romanzi che compongono la bibliografia del nuovo Premio Nobel, pubblicati in Italia da Bompiani.

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Nato a Gyula il 5 gennaio 1954, Krasznahorka ha studiato giurisprudenza a Szeged e lingua e letteratura ungherese a Budapest. Agli inizi della carriera ha lavorato per alcuni anni come redattore fino al 1984, quando si è dedicato completamente alla narrativa. Satantango, del 1985, è il suo romanzo d’esordio. Ambientato in un villaggio ungherese abbandonato e cadente, introduce molti dei suoi temi fondanti: l’illusione della salvezza, la manipolazione, la circolarità dell’azione. I personaggi aspettano un ritorno, quello di Irimiás e Petrina, figure ambigue che incarnano la speranza di un cambiamento ma si rivelano, se non apertamente malvagie, comunque ingannevoli. A confermare il destino non benevolo dell’umanità, secondo László.

Allo stesso modo, Melancolia della resistenza (1989) ruota attorno all’arrivo di un circo con una balena in un paese di provincia: l’evento, solo apparentemente neutro, scatena un’ondata di isteria collettiva, preludio a un disfacimento più profondo. Entrambi i romanzi mettono in scena comunità marginali, in bilico tra disgregazione sociale e collasso simbolico, in cui la salvezza è attesa ma mai realmente concepita come possibile. Nei testi successivi Guerra e guerra (1999), Il ritorno del barone Wenckheim (2016), Avanti va il mondo (2024) - l’impianto si amplia, mantenendo però intatta la tensione tra disincanto radicale e tensione metafisica. In particolar modo in Guerra e guerra, il protagonista, archivista in crisi, cerca di salvare un antico manoscritto pubblicandolo su internet, nella convinzione che questo gesto possa sottrarre almeno un frammento alla rovina universale. È un’azione che confina con l’assurdo, eppure coerente con una visione in cui il gesto individuale ha ancora valore.

E in esso il senso più profondo della letteratura stessa, come traspare nettamente dalle parole che Krasznahorkai ha affidato qualche anno fa al taccuino dello scrittore italiano Paolo Di Paolo. «Dai miei lettori mi aspetto la rivoluzione. La ribellione. Una capacità di essere inquieti. La magnanimità dell’irresponsabilità. Il buon gusto. Un bagaglio culturale che non mira a conquistare il potere. Ma tutto questo non è davvero ciò che mi auguro di ricevere dai miei lettori: questo è quello che auguro loro di ricevere. E lo dico con un sentimento di grande tranquillità nell’animo, perché sodi non averli mai privati di nulla, soprattutto di non aver mai tolto loro una cosa - se ne avevano, o se ne hanno ancora - la speranza. La speranza che esista una realtà narrabile, e che vivere in essa non sia vano».

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Una speranza che, fuor di narrativa, per lo scrittore è coincisa sempre con i viaggi. Non fughe ma l’inseguimento di prospettive diverse da quella spesso fosca della sua terra natia. Da qui l’amore per la luminescente Vienna, per la nostra ventosa Trieste «A scuola in Ungheria ho studiato il latino, e il Rinascimento italiano è stato sempre il mio grande amore» ha dichiarato in una intervista alla Treccani. E addirittura per Berlino Ovest, dove si trovava la sera del 9 novembre 1989 quando confessò di aver avuto quasi paura al pensiero che quel muro crollasse. Un muro che, in qualche modo, era anche protezione dal mostro comunista dal quale lo scrittore fuggiva in preda alla sua ispirazione, proprio in quegli anni particolarmente feconda.

La notizia del Nobel lo ha colto – a suo dire – quasi alla sprovvista a Francoforte sul Meno, a casa di un amico, dove ieri sera hanno festeggiato con vino Porto e champagne. «Sono molto felice e orgoglioso perché far parte di una stirpe che annovera così tanti grandi scrittori e poeti mi dà la possibilità di usare la mia lingua, la mia lingua madre, l’ungherese, nonostante la mia Ungheria sia tornata ad allontanarsi dall’occidente».

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