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Presidenzialismo, perché i padri costituenti lo bocciarono

Francesco Carella
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A sfogliare l’intera storia della Repubblica non può sfuggire il fatto che la forma di governo che il Paese si diede all’indomani del Secondo conflitto mondiale poche volte sia risultata in sintonia con “i ritmi e i tempi della decisione” che una moderna democrazia richiede. «L’Italia», scrive Giuseppe Maranini in Storia del potere in Italia «ha conosciuto governi forti solo sotto la dittatura. A noi manca l’esperienza dei governi democratici forti, che è poi l’esperienza delle migliori democrazie». Ed è ciò che si propone il governo Meloni mettendo in cantiere una riforma costituzionale che ponga nel giusto equilibrio la sfera della rappresentanza con i poteri dell’esecutivo.

In tal senso, timidi tentativi furono fatti già in sede di Assemblea Costituente da Piero Calamandrei, ma furono pesantemente respinti da una cultura politica che considerava il presidenzialismo come l’anticamera di una svolta autoritaria. Se le tesi del giurista fiorentino avessero trovato il giusto consenso il corso della vicenda politica repubblicana sarebbe stato completamente diverso. Ora che il tema viene riproposto vale la pena di riflettere sulle ragioni che portarono i Costituenti a scegliere una forma di democrazia parlamentare, scartando il presidenzialismo come pericoloso e collocandolo fra i grandi tabù della Repubblica.

 

 

Intanto, oggi si può affermare che a guerra ancora in corso - siamo nell’aprile 1944 - gli angloamericani si proponevano di escludere per l’Italia la scelta di “istituzioni forti” nel timore che si potesse rischiare una replica dell’esperienza fascista. Si tratta di una decisione che incontra il favore delle maggiori famiglie politiche presenti in Assemblea Costituente (cattolico-democristiana e social-comunista) segnate da una reciproca sfiducia e da un’irriducibile inconciliabilità sia in termini di dottrina politica che di collocazione internazionale. Talché si optò per un sistema parlamentare che di fatto escludeva che «si potessero costituire maggioranze stabili accanto ad efficaci strutture di comando».

I Costituenti stipularono una vera e propria «polizza di assicurazione, per far sì che in nessun caso la vittoria di una parte avesse potuto portare all’annientamento politico dell’altra». In tal senso, il costituzionalista Augusto Barbera ricorda che «la parte sul governo e sui rapporti governo-parlamento è una delle meno accurate e dettagliate della Costituzione quasi come non si reputasse in fondo utile né tanto meno necessario vincolare a una precisa disciplina la nascita, la vita e la morte di un esecutivo».

 

 

Forse, a distanza di 75 anni, occorre prendere atto che le ragioni storiche che hanno portato alla scelta di una forma di “democrazia debole” sono state largamente superate. Pertanto, l’elezione diretta del capo dell’esecutivo, accanto ai necessari bilanciamenti dei poteri, potrebbe essere un passo importante verso la formazione, per dirla con Maranini, di «governi democratici forti e immunizzati nei confronti di ogni possibile pratica trasformistica». Eppure, la sinistra è già sul piede di guerra. Il sospetto è che si teme che con un assetto costituzionale diverso occorra vincere le elezioni per guidare il Paese.

Una pratica poco conosciuta dalle parti del Pd.

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