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Vittorio Feltri: "Continuerò a usare la parola 'clandestino'"

Vittorio Feltri
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A volte quasi mi persuado che la guerra al dizionario della nostra ricca lingua sia stata vinta dai sacerdoti del politically correct e che per noi, poveri tapini, non ci sia verso: siamo stati sconfitti e ci tocca adeguarci al nuovo misero lessico o tacere.
Dovremmo rassegnarci. Oppure insorgere con irriverenza e menefreghismo, ossia senza temere l’inevitabile condanna sociale. Sarebbe opportuno, ai fini di questa rivoluzione, sdoganare quei sostantivi ed aggettivi oggigiorno censurati, manovrando i quali, soprattutto noi giornalisti, rischiamo di essere perseguiti e pure perseguitati. Mi riferisco, ad esempio, al termine “clandestino”.

MIGRANTI
Nell’ottobre del 2019 il giornalista e consigliere regionale nonché capogruppo leghista della Valle d’Aosta Andrea Manfrin ha digitato tale nome riferendosi ai migranti che raggiungono illegalmente l’Italia e il Consiglio di disciplina territoriale dell’Ordine dei giornalisti della Valle d’Aosta ha comminato al cronista la pena di tre mesi di sospensione dall’esercizio della professione, in quanto egli avrebbe violato la Carta di Roma, recepita nel Testo unico dei doveri del giornalista, secondo cui questi «nei confronti delle persone straniere adotta termini giuridicamente appropriati» evitando «la diffusione di informazioni imprecise, sommarie o distorte riguardo a richiedenti asilo, rifugiati, vittime della tratta e migranti». Tuttavia, “clandestino” non è voce offensiva. Si legge sul vocabolario: «Clandestino è colui che si trova od opera in una situazione irregolare, senza l’approvazione dell’autorità o contro il divieto delle leggi vigenti».

Quindi, Manfrin era ricorso ad una voce della lingua italiana priva di intenzione denigratoria ma che descrive la condizione giuridica di chi, in violazione delle norme in vigore, varca le frontiere di uno Stato scegliendo vie non legali che gli consentano di aggirare ogni regola. Del resto, non esiste alcuna norma che autorizzi i cittadini di altri Paesi a mettersi in mare per trasferirsi in Italia, addirittura senza documenti. Di contro, semmai esiste il reato di clandestinità, cioè il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, ed esistono altresì i clandestini, che dalle nostre parti sono parecchi. Peraltro, preme sottolineare che il post incriminato in quanto contenente la parola vietata “clandestino” era stato pubblicato da Manfrin su un profilo Facebook personale e non in un articolo, quindi non si capisce perché l’Ordine sia intervenuto decidendo addirittura di punire il consigliere, forse colpevole di essere leghista.

SUPERFICIALITÀ
È grave sintomo di superficialità guerreggiare contro le parole. Ed è disonesto strumentalizzarle per sguazzare in vittimismo bieco ed inutile, atteggiamento che appare molto in voga negli ultimi anni, o per compiere attacchi ideologici nei confronti di chi non riusciamo a digerire. La lingua non è qualcosa di statico, bensì vitale: essa è organismo che muta in continuazione. Tuttavia, adesso è il politicamente corretto a determinare una distinzione manichea tra ciò che è ammesso proferire e ciò che è severamente vietato pronunciare, pena lo stigma (a vita) di intollerante. Nell’epoca della libertà tracimata in dissolutezza e libertinaggio possiamo essere disinvolti nei costumi ma guai ad esserlo, tanto più se rivesti un ruolo politico o sei iscritto all’Ordine dei giornalisti, nell’uso del vocabolario il quale richiede l’osservanza di rigide norme sociali, stando bene attenti a non inciampare in aggettivi o sostantivi che fanno perdere la faccia e danneggiano la reputazione. Si dia il caso appunto che coloro i quali adoperano la parola “clandestino”, nonostante si tratti di un termine prettamente giuridico, siano per ciò stesso fascisti, razzisti, estremisti di destra, ignoranti e incivili.

La guerra al dizionario si fa sempre più aspra. E questo è sintomo della nostra superficialità nonché di un perbenismo di facciata, sterile, finto. Ecco perché non si tratta di un progresso. Ci siamo convinti che le sillabe possano veicolare dei giudizi morali e non semplicemente indicare o descrivere qualcosa. Ecco dunque che dire “clandestino” equivale, almeno per i seguaci del politicamente corretto, ad esprimere una valutazione personale negativa, di inferiorità, riferita pure all’origine etnica, dal momento che clandestino non può essere un italiano o un altro cittadino europeo e lo è soprattutto chi giunge dal continente africano, ovvero chi è di colore.

SCHIZOFRENIA
È una schizofrenia questa pretesa di epurare il linguaggio da quelle voci a cui da sempre ricorriamo e alle quali non abbiamo mai attribuito alcuna funzione insultante. Dunque “clandestino” non si può più scrivere, eppure tale vocabolo descrive efficacemente una condizione giuridica e non è mica una ingiuria. Siccome adesso abbiamo tanti neri in Italia è bene non chiamarli “negri” e siccome abbiamo tanti immigrati illegali è bene non chiamarli “clandestini”. Peccato che codesti assunti siano privi di logicità e si fondino su considerazioni fondamentalmente di tipo razzistico. Noi che adoperiamo il termine “clandestino” intendiamo con chiarezza ed incisività descrivere lo status della persona a cui ci riferiamo, ossia indicare che tale persona, la quale non ci permettiamo di giudicare dal punto di vista morale, semplicemente si è insinuata ed insediata in maniera non regolare, quindi illegale, sul territorio dello Stato italiano, cioè clandestinamente.

DISCRIMINAZIONE
E la constatazione, così come l’affermazione, di questo stato di fatto non può rappresentare una discriminazione o un delitto. Essa costituisce una mera e oggettiva informazione priva di qualsiasi contenuto valoriale o giudicante. Ecco la ragione per la quale è inaccettabile che un giornalista venga condannato dall’Ordine che dovrebbe tutelarlo in quanto ha fatto ricorso alla parola “clandestino”. Il cronista non è scivolato in alcun errore o delitto, essendosi limitato a spiegare con poche sillabe una situazione de facto. Per quanto mi riguarda, io seguiterò ad adoperare codesto termine proprio del lessico giurisprudenziale, con la consapevolezza di non arrecare danno né ai clandestini né alla lingua italiana. Dannoso sarebbe semmai affermare che un clandestino non sia clandestino, ovvero negare la verità soltanto perché ci appare poco carina. La verità non deve essere carina, piuttosto meglio che faccia schifo. Se ci tocca renderla graziosa, la trasformiamo in menzogna.

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